Ci lasciamo alle spalle Mola di Gaeta, la tomba di Cicerone e il villaggio d’Itri. Passiamo il borgo di Fondi, rinomato per la bellezza delle sue donne, e due volte saccheggiato dai Turchi. Il corsaro Barbarossa, sbarcando una notte sulla spiaggia vicina, depredò la città, massacrò gli abitanti e rapì le ragazze, che condusse in Africa. Non le aveva prese tutte, perché se ne vedono ancora di molto belle.

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Il racconto è di Paul de Musset, fratello maggiore, ma certamente meno noto di Alfred. I due avevano in comune la passione per l’Italia, che Paul, con buona grazia e garbata ironia, celebra anche in questo libro di viaggio intitolato En voiturin (in vetturino, riferito alla carrozza che per tanta parte dell’Ottocento nella penisola ancora sostituiva il treno). Il racconto e il viaggio di Paul de Musset, da Napoli verso Roma, così continuano:

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E’ a Fondi che ci si accorge del cambiamento del territorio. Il sangue della Campania svanisce di villaggio in villaggio. La taglia delle donne diviene più slanciata, l’andatura più grave; gli occhi s’ingrandiscono, i nasi sono più lunghi, più fini, e la regolarità classica regna sui visi meno abbronzati e meno animati. La petulanza si spegne a poco a poco, essa è rimpiazzata dalla maestà romana. Il suono della voce è più armonioso, la parola più lenta; non c’è più dialetto, e voi siete stupiti di sentire contadini, cameriere d’albergo e facchini servirsi di termini scelti. Li prendereste volentieri per gran signori, rigettati nel popolo da rovesci di fortuna.

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Non credo che si possa parlare di allucinazioni, questo no, ma insomma un po’ di autosuggestione almeno ci dev’essere stata nella testa e negli occhi di Paul de Musset. Si può pensare che fosse già così preso dalla prospettiva di arrivare a Roma, che, in vista ormai del confine pontificio e di Terracina, vedeva romani – e romane – dove ancora non ce n’era. I casi, a volte fortunati, della vita mi hanno portato abbastanza spesso e ancora mi portano e porteranno a Terracina, ma le certezze antropologiche o etnologiche di Musset non le ho mai trovate.

IMG_1474D’una cosa sono sicuro: che Terracina è, per come è fatta, per dove sta, per i rapporti fra gli elementi naturali e umani che la compongono, per i suoi stessi monumenti d’epoche diverse, un confine, direi quasi il confine assoluto, e al tempo stesso, e per le stesse ragioni, è la negazione del confine. Voglio anche dire con questo che i confini migliori, quelli che affascinano, i soli che vadano conservati, sono i confini che da se stessi si negano. Ora, è chiaro che tutto ciò va spiegato.

Il ricordo della prima volta che ci sono stato è molto vago, come quasi tutti i ricordi d’infanzia, che oltretutto sono molto più spesso indiretti che diretti, sono cioè ricordi di ricordi altrui dei quali col passare degli anni si sono sommati i racconti. Doveva essere il 1957 o il 1958: non so dire precisamente l’anno per due ragioni. La prima è che non segnavo date sul calendario, non tenevo diari o agende: non lo facevo allora ch’ero un bambino, non l’ho mai fatto neanche dopo e, credo, non lo farò neanche da vecchio. L’altra ragione è più specifica: mio fratello, che è del febbraio del 1956, era allora molto piccolo e ancora non parlava. Mi è stato sempre detto, tuttavia, che Massimo ha parlato molto tardi. Anche oggi non è di tantissime parole, pur essendosi laureato in filosofia. Avrebbe insomma cominciato a fare uso di tutto il vocabolario fino allora conosciuto non prima dei tre anni: il che mi suggerirebbe di poter posticipare addirittura al 1959 il tempo di quella vacanza. Mi pare però che quello fosse l’anno di Lavinio. Certo è – mi è stato tante volte confermato che mi pare quasi di ricordarmelo, di sentirlo ora – che Massimo a Terracina apriva bocca solo per due espressioni, che con qualche approssimazione si possono scrivere così: dindò e miommiò. Dindò prendeva tutto il dizionario, era universale, era allora il rapporto di mio fratello col mondo. Miommiò era solo per il cavallo, il primo animale che abbia colpito la sua immaginazione, non solo, credo, per la mole, ma anche perché si portava appresso una carrozzella che permetteva di andare dalla città vecchia al lido senza fatica. Così anche zia Mercede cominciò a dire miommiò, con sempre maggiore insistenza e sempre minore ritegno: dapprima lo diceva solo quando si trattava di risalire dal mare a casa, poi anche le volte che stavamo per scendere. Quindi, miommiò, che letteralmente significava “cavallo” ovvero “cavallo che traina una carrozzella”, divenne anche il segno del primo confine che ho conosciuto a Terracina: quello fra l’alto e il basso, fra le case aggregate alla collina rocciosa e la vasta distesa della sabbia e del mare.

Passarono gli anni e dopo l’intermezzo di Lavinio, funestato dalle zanzare che allora ancora mi perseguitavano, perché naturalmente non avevo ancora cominciato a fumare – fumate, se volete evitare i pizzichi delle fastidiose bestiole: pipe, sigari, sigarette rovineranno pure tutto il resto dei poveri corpi umani, ma le zanzare odiano il fumo e si astengono dal succhiare sangue infetto da nicotina – passarono gli anni, dicevo, e cominciai a trascorrere tutte le estati allo stesso modo e nello stesso posto, che si chiama Torvajanica. All’inizio era anche quasi bello: una casa qui, una là, a volte poco più che baracche, diversi ciuffi di quella che doveva esser stata tempo prima la macchia mediterranea, qualche barca posteggiata sulla spiaggia e perfino qualche rete tirata a riva verso sera. C’era un cinema, dove una volta rimasi felicemente turbato dal profilo sdraiato e nudo, statuario soprattutto per immobilità, di Elizabeth Taylor che faceva Cleopatra. Venne ovviamente il momento in cui Torvajanica mi apparve come una sorta di ergastolo estivo: tanto più che le case erano aumentate in progressione geometrica. Avevamo contribuito anche noi a questo. Avevano contribuito, più esattamente, mio padre, zio Vittorio e zio Nando, che avevano costruito un villino a tre piani, di cui noi avevamo preso l’ultimo piano: facevamo più scale, ma vedevamo più mare. Si sa come funziona: ho odiato e amato molto Torvajanica e quando poi mio padre ha venduto l’appartamento – eravamo già verso la fine del secolo – un po’ mi è dispiaciuto, ma non ho trovato nulla da obiettare.

Intanto mi ero fidanzato e poi anche sposato ed erano nati i due figli. Al periodo relativamente lungo del fidanzamento risalgono le nuove incursioni fatte a Terracina, a volte anche più giù, fino a Sperlonga e a Gaeta. Una volta, da quelle parti, restammo senza benzina. Giravamo con la Dyane che Adriana si era comprata con i suoi primi stipendi di hostess dell’Alitalia. Erano gli anni settanta, che poi saranno diventati anche di piombo, ma per noi ventenni erano d’oro. Quella stessa volta, o forse un’altra, in una trattoria sperduta in campi aridi mangiammo spaghetti alle vongole, fatti con le vongole piccole e col pomodoro, che sembravano parlare di Napoli, d’una Napoli in salsa antica, che forse, non lo so, oggi non esiste più. Ecco, allora il confine e il suo superamento si potevano anche gustare.

Veniamo a questo secolo. Poco più che dieci anni fa mi è stato tolto un melanoma fortunatamente in situ, che almeno psicologicamente mi ha fatto improvvisamente diventare un po’ più vecchio, cosciente insomma come mai prima della limitatezza del mio passaggio in terra e come sempre ignaro di altri eventuali passaggi e destinazioni. IMG_1619 L’anno dopo, al primo o al secondo dei periodici controlli, stabilito che tutto andava bene, con Adriana, che mi aveva accompagnato e mi aspettava, ho preso la macchina parcheggiata vicino all’IFO, che allora chiamavano ancora San Raffaele, e ho imboccato la Pontina, la strada che porta a Sud e al mare, volendo anche a Torvajanica, ma a Pomezia ho continuato diritto, ancora verso Sud, fino a Terracina. Abbiamo pranzato alla Capannina, ottimo ristorante di pesce, magari non proprio a buon mercato, in faccia al Mediterraneo, o al Tirreno, che è la stessa cosa o quasi, e all’ombra, se così si può dire, del Pisco montano e del tempio di Giove Anxur.

Perché arrivare fino laggiù? perché spezzare a quel modo quella giornata? Per spezzarla, appunto. Per misurare fisicamente la differenza fra un risveglio, ch’era stato inquieto, com’è stato tutte le volte che dovevo metter piede in un ospedale o in uno studio medico, dove mi dovessero fare o controllare qualcosa, e un nuovo giorno d’una vita che continua. Era un altro confine che mi si presentava a Terracina.

Tutto questo io allora lo intuivo, più che saperlo davvero. Non si finisce mai d’imparare e questa è una delle poche ragioni valide per le quali l’uomo aspira all’immortalità. Nulla e nessuno, in ogni modo, fino agli ultimi tempi m’avrebbe potuto suggerire che la mia, la nostra, frequentazione di Terracina si sarebbe fatta molto più assidua, si sarebbe caricata di altri significati e ci avrebbe elargito tante altre considerazioni sul confine e sui confini. Il mare preferito per le vacanze era da tanti anni divenuto quello di Riva Bella, in Corsica, interrotto solo da rapide visite all’amico Dominique e alla sua adorata e adorabile Ajaccio. Il mare dei sogni, qualche volta ma piuttosto raramente avverati, è quello greco. Il mare di un giorno è stato per molto tempo Capalbio, fra Chiarone e Macchiatonda, già Granducato di Toscana, dove lo spazio era tanto e tale da permetterci o indurci a sperimentare le prime volte la felicità di fare il bagno nudi. Così abbiamo continuato a lungo: passavamo la giornata al sole, non mettevo la crema – e forse è stato allora che mi sono procurato quel melanoma – saltavamo il pranzo o mangiavamo panini, poi verso le sei, le sette del pomeriggio, mossi dalla fame e dalla sete, prendevamo su le nostre cose, ci vestivamo, rifacevamo il cammino – spesso di chilometri – compiuto al mattino per stare abbastanza lontani dal resto del mondo, riprendevamo la macchina e correvamo su al paese, dove ci presentavamo al ristorante quasi sempre molto prima delle otto per chiedere crostini di cinghiale, pappardelle al cinghiale, e cinghiale in umido. Poi ci è sembrato che l’ambiente, più che il naturale l’umano, fosse un po’ decaduto, oppure non era già più il tempo del mare in giornata.

In tutte queste imprese marinare, mai eroiche, come si sarà capito, al massimo a volte un po’ faticose, ci sono stati spesso compagni i nostri amici Daniela e Angelo. Sono stati loro che qualche anno fa ci hanno riportato a Terracina. Dopo aver lungamente cercato un pezzo di campagna in giro per il Lazio – aveva trovato cinque ettari di terra splendida in territorio di Stimigliano in faccia al Tevere e al Soratte: costavano relativamente poco ma il dubbio era che ci si potesse davvero costruire qualcosa – finalmente Angelo ha trovato un casaletto, il Casaletto, come lo chiamiamo adesso, sulla montagna che sovrasta appunto Terracina. Dico montagna, perché la quota è sopra i cinquecento metri. La differenza di temperatura fra lì e sotto può essere a volte di cinque, sei, sette gradi. Può capitare e capita che al mare splenda il sole e lì piova, oppure ci sia la nebbia, che magari è una nuvola appoggiata per qualche momento al pendio.IMG_1415 La terra è difficile, pietra quasi dappertutto: i contadini l’hanno lasciata da tempo, forse da sempre, ai vaccari. Tanto più grande per questo è la meraviglia che suscita il bosco che copre quasi tutta la valletta. Viene naturale pensare all’ingegno, l’astuzia, la pazienza che ha dovuto usare ogni albero per insinuare fra sasso e sasso oppure nelle incrinature della roccia le proprie radici. Quanto agli alberi nuovi, quelli piantati da Angelo, qualcuno non ce l’ha fatta. Altri dimostrano la stessa caparbietà degli indigeni. Resistono bene, per esempio, in forme eleganti, i cipressetti più volte potati da vacche golose che fino a qualche tempo fa saltavano con grande agilità la recinzione.

Ogni tanto, dunque, siamo tornati a Terracina, fermandoci un paio di giorni al Casaletto. D’estate, ma anche in primavera, scendiamo al mare nel tratto che va verso Sperlonga: una volta ci ho fatto il bagno che era il primo d’aprile. Il bagno fuori stagione, ovvero nella stagione che non è ancora arrivata o in quella che non è del tutto finita, mi procura una sorta d’estasi profana. Esco dall’acqua che mi sento un uomo nuovo e il sentimento dura almeno per il resto della giornata. Il ricordo dura molto a più lungo, cosicché ricordo ancora un bagno di gioventù fatto più o meno nello stesso mare: eravamo a Ventotene, una straordinaria e unica gita quasi aziendale con i colleghi della Voce Repubblicana, a metà degli anni settanta. In due o tre ci tuffammo nell’acqua gelida: ne uscimmo poco dopo gloriosi. Era, mi pare, un 28 febbraio.

IMG_1427 - Versione 2Ho sempre giocato a tirare più in qua o più in là il confine delle stagioni. Terracina, il suo mare, il suo cielo, le sue palme, le buganvillee si prestano molto bene a questo. Di qualcosa del genere doveva essersi accorto anche Goethe che arrivato a Fondi il 23 febbraio 1787, dopo aver fatto il cammino inverso a quello che avrebbe compiuto Musset decenni dopo, notava nel suo diario di Viaggio in Italia:

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Noi continuammo il nostro cammino, conversando animatamente, sempre memori della raccomandazione che lungo questo tratto non è bene farsi cogliere dal sonno; in realtà, il vapore azzurrino, che già in questa stagione fluttua a una certa altezza sopra il suolo, ci fa pensare a qualche ondata di malaria. Tanto più lieta e gradita ci parve la posizione di Terracina, appollaiata sulla roccia. Avevamo appena finito di goder quella veduta, che arrivammo anche in vista del mare. Poco dopo, l’altro lato della città e della roccia ci offrì anche lo spettacolo di una nuova vegetazione: i fichi d’india allungavano le loro grandi e tozze foglie grasse fra il verde sbiadito degli umili mirti sotto il verde dorato dei granati e quello pallido degli ulivi; nuovi fiori e cespugli non mai visti si offrivano lungo il cammino al nostro sguardo; narcisi e anemoni fiorivano sui prati. Per un certo tratto, il mare rimane a destra; ma le rocce calcaree restano a sinistra, sempre a noi vicine.

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Ecco che Goethe mi riporta ai confini reali, non quelli fatti dalla mia mente. La via Appia, che evidentemente è già passata sotto il Pisco Montano e il Monte Sant’Angelo, divide la roccia dal mare. Non ci fosse la strada di mezzo, la pietra e l’acqua, pur congiungendosi in una infinità di modi e di punti, continuerebbero da sole a separarsi, naturalmente. La strada che corre in mezzo per quel tratto segna il confine e insieme lo nega. E’ stato ai tempi di Traiano, grande imperatore, che lo sperone roccioso è stato tagliato per far passare lì, su quella curva, il nuovo tracciato dell’Appia che prima s’inerpicava per la montagna. Più d’un millennio dopo è stata costruita a ridosso dello sperone una porta, destinata ad annunciare a chi veniva da Sud l’ingresso nello Stato Pontificio. Ci deve essere passato anche Goethe, anche se non ne parla. La porta c’è ancora e si chiama Napoletana, o semplicemente Napoli, così come l’altra, che introduce da Nord alla città vecchia e già sale un po’ verso la collina, si chiama Porta Romana. Il confine al tempo del papa re non era esattamente quello di Porta Napoli. Più in là verso Monte San Biagio, alla torre detta dell’Epitaffio c’era la dogana pontificia, lontana circa tre chilometri da quella borbonica, che era alla Portella. Cosa potesse succedere nella terra di nessuno fra le due frontiere è spiegato con l’abituale verve da Paul de Musset:

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Si entra negli Stati pontifici attraverso una strada erta e pittoresca. Il nostro vetturino passò senza incidenti la stretta, tanto pericolosa una decina d’anni fa, delle rocce di Terracina. L’eccellente ragione per la quale il brigantaggio esercitava tranquillamente i suoi diritti, è che doganieri, postiglioni e abitanti del posto facevano parte della banda e prendevano la loro parte di bottino. Il doganiere controllava coscienziosamente i bagagli. Se non notava nulla di prezioso, non ci s’incomodava; ma, quando l’esame delle valige era soddisfacente, un corriere spedito per strade traverse andava ad avvertire i briganti; la vettura arrivando alla stretta trovava con chi avere a che fare, poi si divideva da buoni fratelli. Ecco come può esser gradevole esercitare la condizione di ladro, a colpo sicuro e senza pericolo. […] Tuttavia il mestiere pare un po’ in declino; le bande sono disorganizzate al momento presente. Qualche incapace ha svaligiato dei cardinali, che l’hanno presa male, e si sono stupiti, a un secondo passaggio, di vedere le proprie vesti sulle spalle del doganiere e il postiglione che guardava l’ora sul loro orologio. Questa esagerazione e questa leggerezza dovevano necessariamente portare una decadenza in quell’industria. Misure rigorose sono state prese dal governo pontificio, e Terracina ha perso così il più sicuro dei suoi introiti. Non ci si ruba più in grande come una volta; ma, per non perder la mano, ci si limita, in mancanza di meglio, al piccolo imbroglio. I camerieri d’albergo raccolgono volentieri ciò che il viaggiatore lascia nella stanza, come fazzoletti da tasca, pezzi diversi del nécessaire di toletta, pantofole, cappelli e altri piccoli oggetti. Se lo straniero reclama, pare ci si stupisca della sua audacia; se insiste, gli si risponde con un silenzio maestoso, alzando le spalle con un sorriso di disprezzo che dice chiaramente:

– Egli osa lamentarsi per una bagattella, senza pensare che l’avremmo spogliato anche della camicia dieci anni fa! In che tempi viviamo! Via, siete tutti ingrati!

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Così si scopre che quegli stessi “gran signori, rigettati nel popolo da rovesci di fortuna” tanto lodati da Musset sono tuttavia un po’ furfanti. Da allora gli alberghi di Terracina sono molto migliorati e, per quello che ho potuto costatare, tutto ciò che si è lasciato in camera viene comodamente ritrovato. Noi abbiamo passato una notte al Palace, dove avevamo un balcone che guardava al Pisco Montano. All’una di notte siamo stati svegliati dai fuochi d’artificio sparati lì davanti, sulla spiaggia. Da quello che ho capito, a Terracina si spara una salva di bengala e altre meraviglie pirotecniche almeno una volta a settimana. Non prevedevo che si facesse a ora così tarda, ma questo è stato l’unico inconveniente che abbiamo avuto. Per la verità anche un paio d’ore prima avevo incontrato una piccola difficoltà. Avevamo, come si dice, tirato tardi su al Casaletto. L’aria s’era fatta piuttosto fredda e la proposta, fatta da Daniela, di mangiare ancora qualcosa lassù era stata declinata, anche perché Iacopo, Iacopo con la I, il figlio di Daniela, che è il miglior amico di Jacopo con la J lunga, che è nostro figlio, aveva proposto di scendere in città, “a bere una cosa”, come dicono loro. Per quale motivo fossimo tutti lì, al Casaletto, lo dirò fra poco. Sta di fatto che tutti, passate da un po’ le nove di sera, un sabato sera, di fine giugno, siamo scesi a Terracina. Io, sinceramente, pensavo che scendendo avrei recuperato qualche grado di temperatura – cosa che puntualmente poco dopo è avvenuta – e confidavo nell’ipotesi che, se per caso mi fosse venuta fame, assieme a quelli che “bevevano una cosa” avrei potuto a mia volta mangiarne un’altra.

Siamo dunque scesi, con l’ingenuità, l’esuberanza e quel certo fatalismo che sono tipici delle sere d’estate, soprattutto alla fine o alla vigilia del giorno di festa. Tre quarti d’ora se ne sono andati nel traffico, nelle segnalazioni telefoniche delle rispettive posizioni e nella ricerca dei posti per le diverse auto. Siamo finalmente arrivati ai tavoli di un bar sul lungomare – e miracolosamente tutti allo stesso bar – e lì ho scoperto che potevo bere qualsiasi cosa, ma da mangiare non c’era proprio niente, neppure un gelato, del quale mi sarei anche contentato, perché intanto m’era davvero venuta fame. Ho chiesto una boccetta d’acqua. Ho inseguito per alcuni momenti i miraggi che mi arrivavano dal mondo circostante. Di fianco al bar c’era una fila di persone in attesa di arrivare alla propria razione di pesce fritto: ma non mi andava di far la fila, e non mi andava il pesce fritto, perché per me il fritto di pesce risponde alla gola e non alla fame, e io a quell’ora avevo solo fame, tanto che alla ragazza del bar avevo anche chiesto se per caso avessero quella cosa che si chiama toast e che rispetto alla gola più che un peccato è un sacrificio. Qualcuno – non ricordo se Iacopo o Valerio, altro amico di Jacopo e Iacopo – aveva accennato alla promessa di una pizza che si sarebbe mangiata più tardi nella notte. Miraggio troppo lontano. Alla fine ci siamo salutati e con Adriana e Teodoro siamo tornati in albergo.

Avevo fame. E anche Adriana non poteva negare di cominciare un poco a sentirla. Sono sceso di nuovo, ho chiesto, per puro scrupolo, al portiere di notte se ci fosse una qualche disponibilità di panini in albergo. Mi ha risposto di no, come prevedevo, e mi ha magnificato le virtù di un paio di bar lì vicino. Uscendo, mi sono ricordato delle bombe alla crema mangiate la mattina al caffè-pasticceria proprio dietro all’albergo. Se è ancora aperto – ho pensato – è fatta. Ho girato l’angolo: era aperto. Forse non chiude mai, o giusto un paio d’ore, fra le tre e le cinque. Deve fare i soldi a palate: e li merita tutti. Fatto sta però che a quell’ora – sarà stato verso mezzanotte – quando ho provato a entrarci, sono stato respinto non solo dalla folla che vi si accalcava, ma anche e soprattutto dalla mia incapacità di capire quale logica quella folla seguisse, se ci fosse una fila e dove potesse essere in quel marasma, a chi si dovesse fare l’ordinazione e da chi si potesse ritirare la provvista, sempre che si fosse riusciti a ordinarla. Ho passato così alcuni momenti dolorosissimi, finché ho dovuto desistere e avventurarmi nelle traverse fra il canale e via Roma. Per un tratto la passeggiata notturna mi è ancora sembrata quieta e promettente, quasi un sollievo dopo la prova della pasticceria troppo buona. Poi però, avvicinandomi al centro – e mezzanotte era già suonata – sono stato aggredito dalla musica, suppongo pop o rock – non so valutare la differenza e non sono neppure sicuro che ci sia – che arrivava a tutto volume da un palco che era stato allestito, mi pare, in piazza Garibaldi. Ho cercato di allontanarmi con la maggiore velocità possibile dal luogo del disastro e ho continuato per via Roma, fino al bar più triste che io abbia mai visto in tutta Terracina. Aveva qualche tramezzino debitamente incellofanato: ne ho presi due con prosciutto e formaggio – che somigliano naturalmente ai toast, ma ne fanno solo una metà e quindi stufano meno – e altri due con l’insalata di pollo. Lì, è vero, pensavo di rischiare qualcosa. Ho fatto in fretta il cammino di ritorno, allungandolo per strade traverse e lontane dalla musica. In camera abbiamo equamente diviso i rischi dei mezzi toast e dell’insalata di pollo. Teodoro già dormiva. Ci è sembrato tutto molto buono. Dopo un po’ ci siamo addormentati. All’una i fuochi ci hanno svegliato. All’una e mezza, più o meno, abbiamo ripreso sonno.

IMG_1620La mattina dopo mi sono nuovamente affacciato al balcone. Contro il cielo sereno vedevo una linea spezzata ma continua che scendeva dal basamento del tempio romano giù per il Monte Sant’Angelo, risaliva fino alla sommità del Pisco Montano, per poi tuffarsi fra le palme e gli altri alberi del lungomare, che confondevano senza del tutto nascondere l’uscita di Porta Napoli. Ho provato a fotografare quella linea, come già altre volte avevo fatto, ma era troppo lunga, alta per l’obiettivo. Piano, piano, col passare degli anni, mi sono abituato all’idea che non tutte le visioni, le esperienze, si possono archiviare in immagini. Anche le immagini migliori, le più riuscite, sono cosa diversa da ciò che si è visto e sia pure per un attimo si è vissuto. IMG_1419La tecnologia odierna permette anche a dilettanti come me di fare fotografie quasi nel buio totale e si può anche prendere, come si dice, la luna nel pozzo, ma il risultato è una cosa e l’esperienza un’altra. Quarant’anni fa, avevo già scoperto le meraviglie del grandangolo: mi c’è voluto tempo a capire che quell’arnese rendeva remoto e inafferrabile tutto ciò che avevo visto e quasi toccato. Le fotografie migliori, le vere, non sono riproduzioni della realtà, sono una realtà nuova, un’invenzione pura.

In ogni modo, quella linea spezzata e tuttavia continua, che non riuscirò mai a riprodurre com’è, ma resta chiara nella mia mente, è l’epifania del confine e di tutti i confini possibili. In alto c’è la linea diritta che sovrasta i dodici archi del basamento. La linea poi s’interrompe in un brevissimo tratto verticale – la parete meridionale del basamento – e riprende in pendio, fino a impennarsi sul Pisco Montano, dove comincia a tracciare una curva, quasi un cerchio, suggerendo l’idea di una cupoletta moresca o d’un campanile a cipolla. Fatto questo, la linea scende con molte esitazioni fino al taglio voluto da Traiano, alle palme e alla porta papalina. Con minore fantasia che a Bomarzo, ma con più grande ingegno, la linea traccia il confine fra natura e uomo: il basamento, il taglio della roccia, il fastigio e i pinnacoli di Porta Napoli, interrompono il pendio, prima lieve, poi rapido della montagna, le irrequietezze del Pisco Montano, l’effervescenza della flora già marina. La linea segna anche le epoche e le civiltà che hanno costruito questo ambiente. Il tempio di Giove Anxur è della Roma repubblicana, il taglio è di Traiano e la porta – l’ho detto – è papalina.

Si fa fatica a immaginare, sopra il basamento, il tempio vero e proprio. Se avesse resistito ai secoli e ad altri accidenti, lo vedremmo probabilmente oggi in forma di chiesa. Doveva essere una sorta di Partenone nostrano: sarebbe stato bello vederlo, ma non se ne sente troppo la mancanza. Anche così com’è, si vede a grande distanza. E non c’è dubbio che al di là della forma – quella fila di dodici archi, quella faccia di parallelepipedo massiccio e tuttavia aperto all’aria, al cielo, al mare – evoca immediatamente l’idea di un faro, un segnale che dicesse e dica ai naviganti che lì è terra, lì è Anxur, ovvero Terracina. Il confine non è solo fra la terra e gli altri elementi, è anche fra il riposo, lo scalo, la meta e la navigazione, il viaggio, fra la quiete e la sempre possibile tempesta. Mi viene in mente che qualcuno dei molti che hanno dedicato il loro tempo a dare una geografia all’Odissea ha voluto mettere qui il porto dei Lestrigoni. Fosse stato così, il confine sarebbe stato al contrario: sulla terra la disgrazia, nel mare la tranquillità. Una volta ho speso un capitolo d’un libro – e non il peggior capitolo e neppure il peggior libro – a spiegare come, secondo me, avessero ragione quelli che identificavano in Bonifacio il regno di Antifàte Lestrigone. Non rivedrò adesso il mio giudizio: pure, non posso negare che Terracina si presti in diversi modi a questo paragone.

Torno alla linea e dico cosa ovvia: essa segna il confine fra Nord e Sud, fra Roma e Napoli. Però, attenzione, perché in nessun luogo meglio che qui si dimostra come il confine sia prima d’ogni altra cosa un inganno. Basta in effetti consultare una qualsiasi carta geografica, d’Italia o del Lazio, o topografica della città, per accorgersi immediatamente che, appena uscita da Porta Napoli, la strada, che tutti giustamente pensiamo porti a Sud, piega in verità verso Nord, Nord-Est, seguendo la linea del golfo.

Quella sera, che abbiamo fatto tardi al Casaletto e abbiamo poi cenato con quattro tramezzini, era il giorno che Daniela Piretti e Angelo Galeassi si sono sposati. Così è spiegata anche la ragione per cui eravamo tutti lì riuniti. Si sono sposati nel municipio di Terracina, in una luminosa e grande sala dalle ampie vetrate, che attraverso una loggia dà su una delle più belle piazze d’Italia. Il palazzo è indiscutibilmente, per epoca e stile, un po’ fascista, ma non mi pare, come qualcuno sostiene, una gravissima stonatura rispetto agli altri edifici. A volte – e questa è una – mi sembra che l’architettura pubblica del deprecato e certamente deprecabile ventennio abbia fatto danni minori dei molti fatti dopo. Né si può trascurare ormai, per una valutazione generale dei progressi, o regressi, della nazione, che altri ventenni abbiamo vissuto più tardi e che ancora siamo nell’inquieta incertezza che possano trasformarsi in trentenni o peggio.

Al di là della bellezza, certamente discutibile, o bruttezza, non così evidente, direi che il municipio di Terracina è a suo modo un palazzo intelligente, che sa sfruttare tutti i vantaggi della propria posizione.IMG_1441 Si entra, per esempio, passando da una vasta terrazza coperta che mette in comunicazione lo spazio ridotto ma eccezionale della piazza con la vista sconfinata della città, della piana, del mare, fino al Circeo e alle isole Pontine. All’interno del palazzo si può vittoriosamente combattere la calura estiva – eravamo alla fine di giugno – con il sistema di aerazione più antico: si tengono aperte le porte e le finestre delle due facciate, a mare e a monte. Un venticello leggero correva così sui nostri sposi, sui loro figli e nipoti e sugli amici.

Alcuni degli invitati vedevano la piazza del municipio per la prima volta e ne avevano grande meraviglia. Noi no. O meglio, noi ci meravigliavamo ogni volta che ci siamo tornati. In quelle passeggiate nella città vecchia di Terracina ho seguito le tracce di altri confini: la Porta Romana, ad esempio, perfettamente incastonata nelle case che in quel punto sostituiscono le mura della città, e sormontata dalla sigla . S . P . Q . T ., Senatus Populusque Tarracinensis. Che confine è questo? mi sono chiesto. terracina 2012 08 070 Il confine della città, evidente e ovvio: non è questione di Nord e di Sud e, quanto all’appartenenza a Roma e al suo Stato, essa è denunciata dalla sigla stessa. Ma nella storia e nella geografia, ho pensato ancora, ci sono città che hanno avuto confini più necessari e quindi più rigidi di quanto riusciamo oggi a vedere. Penso che forse fino a meno di un secolo fa la Porta Romana è stata chiusa presto e con molta cura tutte le sere, soprattutto d’estate. Più che verso Roma, guardava verso la piana pontina e le paludi: filtrava, come poteva, come riusciva a fare, il “vapore azzurrino” visto da Goethe.

IMG_1465Poco più su, sulla sinistra del corso Anita Garibaldi, un altro confine, il confine più celebrato dalla teologia cattolica, è addirittura annunciato da una vecchia targa stradale un po’ arrugginita: “Via del Purgatorio”. La via è piuttosto una scalinata, un po’ ripida, com’è forse il caso che sia. Porta alla chiesa del Purgatorio, appunto.

terracina 2012 08 076 La facciata, d’un barocchetto austero come fosse romanico, è dominata dallo stucco di uno scheletro, brutto soprattutto di faccia, ovvero di teschio, munito di una falce, d’una clessidra e d’un cartiglio che classicamente dice: Hodie mihi cras tibi. Ai piedi della simpatica creatura, stanno un mucchietto d’ossa e poco più in là una tiara papale e una mitra vescovile: come dire che tocca davvero a tutti. Sospetto che i terracinesi, i quali secondo me si portano dentro qualcosa di napoletano, ogni volta che passino sotto a quella così ingenua, totale e scanzonata rappresentazione della morte, facciano scongiuri di vario stile e gradazione. Oltretutto nei vicoli lì attorno s’incontrano altre targhe stradali dai nomi molto devoti e, da un punto di vista un poco scaramantico, per niente incoraggianti: ho visto per esempio una “Via SS. Martiri” e un “Vicolo dell’Angeletto”.

Il corso Anita Garibaldi, girato l’angolo di una delle tante edicole dedicate alla Madonna, porta alla piazza del municipio. Può darsi che io l’avessi vista già da bambino al tempo di quella vacanza che dicevo. Ma non la ricordavo. terracina 2012 08 062Così, quando pochi anni fa, ci sono tornato, l’ho vista davvero e l’ho conosciuta, è stata la più gran sorpresa che potessi avere in questa età della vita che di sorprese vere ne conosce poche. Il primo effetto è stato di uno spaesamento assoluto. Non sapevo che Terracina fosse anche tutto questo, e questo prima di tutto il resto. E’ stato un po’ come quando all’improvviso si vengono a sapere d’una persona cose che non si sospettavano neppure: s’incontra un vicino spesso e magari tutti i giorni, lo si saluta, si scambiano pareri sul tempo, che ora annoiano meno dei pareri sulla politica, si arriva a provare il piacere di vederlo, poi, per un caso, ti dice, oppure, sempre per caso, vieni a sapere che è un poeta, un pittore, un musicista o che non è nato lì, dove credevi, ma molto più lontano e così, parlando con la stessa cordialità che usavate prima ma con diversa e più forte intensità, ascolti la lunga avventura che ha avuto e quell’uomo, nella tua mente, cresce senza proporzione allo spazio dedicatogli prima. Altrettanto è cresciuta Terracina, dopo aver finalmente conosciuto la sua piazza.

Vorrei a questo punto precisare che io sono piuttosto esigente in materia di piazze. In particolare non amo, o meglio, non mi fido di quelle piazze che mettono accanto, o anche peggio, di fronte l’uno all’altro, il duomo e il municipio. Mi piace che ci sia separazione e anche una certa distanza fra i due edifici. La maggior parte delle città italiane, a cominciare da Roma, soddisfano questa mia esigenza. A dirla tutta, anche Magliano è così: il municipio è in piazza Garibaldi e per arrivare alla cattedrale bisogna fare tutta via Cavour e via Cardinal De Lai fino all’apposita piazzetta. Si fa tutto in tre, quattro minuti, andando proprio a passo di lumaca, ma ovviamente le distanze sono in proporzione alle dimensioni: non è questo che conta, conta il principio. Così ho sempre pensato che si potesse usare il fatto che cattedrale e municipio siano spalla a spalla a Poggio Mirteto come indiscutibile argomento della superiorità maglianese. Amo molto, anche, le cattedrali costruite ai margini delle città, delle città vecchie naturalmente. Il Laterano corrisponde perfettamente a questa regola, il duomo di Orvieto non potrebbe star meglio e l’ideale inimitabile è Pisa.

Ora, nella piazza di Terracina, il municipio è proprio accanto al vescovado che porta diritto al lato corto del rettangolo dove, sopra un’imponente scalinata, sta il duomo. Non so spiegare perché, ma qui l’accostamento non mi dà alcun fastidio. Potrei forse giustificare l’eccezione con il fatto che qui era il foro, e il duomo, dedicato a San Cesario, è stato costruito dov’era un tempio che probabilmente era dedicato alla dea Roma e al divo Augusto. Volendo si può notare anche una certa continuità, o almeno contiguità, dei nomi pagani e cristiani. Ma a convincermi della mia eccezione dev’essere soprattutto la giustapposizione della grande, alta, immensa torre frumentaria, che fa la guardia al municipio e dell’agile, elegante, campanile che accompagna il duomo.IMG_1439 La torre è tutta di pietra quasi perfettamente bianca, il campanile è multicolore, dei mattoni rossi, delle ombre scure delle bifore e della trifora in alto, delle ombre più sottili degli archetti, del bianco delle colonnine, dei gialli, dei verdi, dei blu dei piatti incastonati nelle pareti. Ecco la prova provata che tutto è possibile: forse è anche la prova che la fantasia ha preso il potere molto prima che tutti i grilli di questo e dello scorso secolo ne parlassero.

Addossato alla scalinata e al bellissimo portico del duomo, un edificio d’impronta gotica chiude quel lato corto della piazza. E’ il Palazzo Venditti che si regge sopra una grande volta, il passaggio dal quale siamo arrivati. L’altro lato lungo, a monte, comincia con pochi palazzetti ordinati per poi perdersi in un delizioso pasticcio in salita di rovine romane, rovine più recenti e altre case disseminate come fosse un presepe napoletano, e ancora, sparsi qua e là, mazzi di oleandri, palme, buganvillee. Ho sentito dire che il comune starebbe cercando di convincere una qualche anziana proprietaria a consentire l’abbattimento di qualche vecchia casa per dare spazio e visione ai resti del teatro romano e d’altri monumenti. Se è così, apprezzo la resistenza delle più antiche generazioni. Dire che apprezzo anche i danni fatti dai bombardamenti dell’ultima guerra, sarebbe certo esagerato. Ma insomma questa mania, che va rifiorendo, di voler scegliere fra le rovine quelle che si dovrebbero considerare migliori, proprio non la condivido.IMG_1440

Con questo, sia chiaro, non sono innamorato del presepe. Non amo il pittoresco e di solito, quando lo vedo, me ne allontano abbastanza in fretta. Amo la storia e i suoi segni e non penso che i segni debbano essere tanto più indelebili quanto più sono antichi. Amo la storia e la geografia insieme, il loro mischiarsi, fino quasi a farsi male. Qui è successo. Come il mare deposita i suoi relitti non sul primo scalino della battigia, ma più su, là dove la sabbia fa una specie di conca e l’onda, quando torna, non riporta più indietro tutto ciò che ha depositato prima, così le epoche, le civiltà, gli uomini hanno lasciato quassù, su questa piazza, su questa mirabile acropoli i propri sparsi ricordi. Così avviene e si ripete il miracolo, lo spaesamento fuori della storia e della geografia: ogni volta che vieni a Terracina e metti piede nella piazza del municipio, sei nel posto che non ti aspetti. Non c’è più alcun confine al mondo, e non c’è più Nord, né Sud. Sei, come a Bonifacio, ma con altri e più raffinati mezzi, nel cuore della rosa dei venti.

Nota: mi costa molto, ma non posso fare finta che Angelo sia ancora qui con noi. Se n’è andato invece: non me l’aspettavo, fino alla fine non ho voluto e neppure potuto aspettarmelo.