BIOGRAFIA

stefano tomassini

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Sono nato a Roma il 28 settembre del 1950. Ho sempre creduto che fosse un venerdì – mi  pare che così mi avesse detto mia madre – poco tempo fa ho consultato uno di quei calendari perpetui, dei quali per altro non mi fido molto, e ho visto che doveva essere un giovedì. Sono nato attorno alle cinque di mattina: e di questo ho trovato conferma nel fatto certo che per molti anni mi sono sempre svegliato con la sensazione che mi mancasse ancora un po’ di sonno. E’ vero anche che per la mia professione sono state tante le volte che mi è toccato alzarmi alle quattro, quattro e mezza, di mattina che, non avendole numerate allora, adesso sarei incapace di contarle. Ho fatto il giornalista, e alla radio per il più lungo pezzo.

Il luogo della nascita, che non è mai senza significato, era quel palazzone alto di via Assisi che fa angolo con via Tuscolana e dà le spalle alla ferrovia che va verso Occidente, verso il mare, verso Pisa e Livorno, Genova o Torino, anche verso la Francia. Suppongo che i primi rumori che ho sentito fossero di treni. Ancora non mi abituo del tutto al silenzio che c’è adesso qui in campagna.

Ho fatto l’università: lettere con indirizzo storico. Il piano di studi però cambiava, a mano  a mano che cambiavano gli interessi o le passioni del momento. Mi ricordo qualcuna delle tesi progettate o solo accarezzate in quei primi anni settanta: il regista danese Karl Theodor Dreyer, che poi lasciò il posto a Gian Lorenzo Bernini uomo di teatro, la storia del Partito repubblicano italiano, al quale mi ero nel frattempo iscritto. Il rapporto più intenso, e simpatico, fu con Renzo De Felice, che allora, alla Sapienza, insegnava storia dei partiti politici. Gli parlai dei movimenti autonomistici, che intanto erano divenuti la mia passione di turno: mi prese a volo e mi propose una tesi sugli autonomisti còrsi del periodo fra le due guerre. Era il 1979 e per la prima volta andai in Corsica, dove non ho mai smesso di tornare, almeno una volta l’anno. La tesi cresceva. Il tempo passava. Non mi sono mai laureato.

Intanto ero diventato giornalista. Ero entrato da volontario alla Voce Repubblicana: ero sempre repubblicano, lo sono ancora, anche in assenza o latitanza del partito. Quando la Voce chiuse, quella prima volta – era alla fine del 1978 – avevo maturato i tempi di quello che si chiamava, forse si chiama ancora, il praticantato. Così all’inizio dell’estate del ’79 potei dare l’esame da professionista: e naturalmente anche da disoccupato. Di quell’estate ho un ricordo e un sentimento come fosse quella la più bella estate della mia vita.

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Il 10 giugno 1979 è nato Jacopo: primo figlio mio e di Adriana. Dal 1976 abitavamo in una bella casa in cima a una palazzina di via Emanuele Filiberto: dalle finestre e dalla terrazza che avevamo sopra si vedevano nell’ordine Villa Wolkonsky, Porta San Giovanni, di sguincio la facciata della cattedrale, il giardino della Scala Santa, l’acquedotto neroniano, i campanili e l’obelisco del Laterano. Due cose soprattutto mi piacevano: passare la domenica in terrazza a prendere il sole e, certe volte, di notte, anche molto tardi, guardare, sotto, la città che non si fermava mai del tutto. Questo, adesso, mi manca molto.

img005 Con Adriana ci siamo sposati il 30 ottobre del 1976: nella chiesa di San Tommaso da Villanova a Castelgandolfo. Pioveva ogni tanto un poco. Il giorno dopo, domenica, Adriana e io, siamo andati fino a Rieti: non so dire perché. Il viaggio di nozze lo facemmo poi: fino a Parigi e in giro per la Francia e un po’ anche in Germania. Ci sono sempre piaciuti i lunghi viaggi in macchina. Uno dei miei sogni preferiti è fare viaggi che durino uno, due mesi, e fermarci dove capita: Francia, Spagna, Portogallo. E tornare in Grecia anche: ma lì, in macchina, è un po’ più complicato.

ritratti016Giulia, Giulia Sabina per la precisione, è nata il 7 maggio del 1984. Questa fotografia gliel’ho fatta, naturalmente qualche anno dopo: eravamo, credo, su un traghetto greco fra Volos e Skopelos.

Sono entrato in RAI all’inizio del 1980, con un contratto di sostituzione d’una collega in maternità. Ero nella redazione di Radiosera, al GR2. Il contratto, che ovviamente era a termine, è finito, e per un po’ sono tornato disoccupato. Poi, però, la collega ha pensato bene di fare un altro figlio e io ho avuto un altro contratto. “Dovresti mandarle almeno un mazzo di rose” mi ha detto allora uno dei due capi che avevo a Radiosera. Altra interruzione, altri mesi passati a guardarmi intorno, a scrivere lettere a questo o a quel direttore di giornale: finalmente l’assunzione con contratto a tempo indeterminato.

Gli anni del GR2 sono stati i migliori della mia vita professionale: forse perché ero giovane, più probabilmente perché mi è sempre piaciuto parlare in un microfono o, anche meglio, attaccarmi a un telefono e registrare o dare in diretta un pezzo. E’ anche vero che tutta la mia carriera in RAI l’ho fatta allora: sono diventato capo redattore nel 1987 e ho potuto costituire una piccola redazione esteri che prima non esisteva.

Nel 1994 sono passato al TG1. Non era un passaggio di carriera, era tuttavia la più grande soddisfazione professionale che io abbia mai avuto: Demetrio Volcic era il direttore della maggiore testata della RAI e voleva proprio me alla guida della redazione esteri. Ma è durata solo qualche mese. I tempi, come sa chi li ha vissuti, erano difficili. Volcic è stato sostituito da Carlo Rossella, che, ci tengo a precisarlo, mi è simpatico e mi ha sempre trattato bene. Ho lasciato la redazione esteri e ho fatto qualche volta – non troppo spesso, è vero – l’inviato. Ho fatto la diretta del funerale di Rabin a Tel Aviv. Nell’estate del ’95  sono andato a Parigi con tutta la famiglia per sostituire Paolo Frajese, il corrispondente, che andava in vacanza. In macchina, andando su, dicevo ad Adriana che sarebbe stato tanto se mi avessero chiesto da Roma una decina di servizi. Poi però ci fu lo scoppio alla stazione della metropolitana regionale a Saint-Michel: e di servizi me ne chiesero più d’una decina, anche da altre testate, ma tutti insieme. L’unico rimpianto che ho avuto per il mio lavoro in RAI è quello di non esser riuscito a diventare corrispondente della RAI da Parigi: mi sarebbe piaciuto proprio tanto. Mi consola solo il fatto di aver conosciuto un collega che aveva lo stesso rimpianto: era il più gran galantuomo e il miglior vice direttore che il TG1 abbia avuto, era Ottavio Di Lorenzo.

Gli organigrammi allora, e non solo in RAI, cambiavano secondo i movimenti della politica. Resta da dimostrare che oggi sia diverso. E’ vero che con la sedicente Seconda Repubblica, e con il preteso bipolarismo, i passaggi si facevano più marcati, qualche volta un po’ rudi. Con Marcello Sorgi sono tornato a fare il capo della redazione esteri. Giulio Borrelli mi ha messo alla redazione politica – l’anno peggiore della mia vita professionale – poi mi ha voluto alla rassegna stampa notturna. Quello della rassegna stampa è stato il periodo, abbastanza lungo, nel quale a volte qualcuno che incontravo per strada mi riconosceva: mi pareva incredibile quanti concittadini soffrissero d’insonnia. Poi al TG1 è arrivato un laziale – dico questo perché sono romanista di nascita – che voleva abolire la rassegna stampa e voleva anche mettermi a fare il capo redattore del mattino. La prima cosa gli è riuscita, la seconda no. Messo a disposizione della direzione generale, mi sono dovuto cercare un lavoro in RAI e grazie agli amici Fernando Masullo e Paolo Ruffini l’ho trovato: era Ballarò.

Ho trovato lavoro, ma ho cambiato mestiere: perché, c’è poco da dire, non era più o non era esattamente fare il giornalista. Però, a modo suo, è stato bello: in qualche momento dei dieci anni che ho trascorso a Ballarò mi è capitato di pensare che stavamo facendo un’opera meritoria e necessaria in un paese condannato dal cosiddetto bipolarismo a fare riemergere i più antichi difetti italiani, la contrapposizione netta e giurata fra inconciliabili rivali, come guelfi e ghibellini, bianchi e neri, piagnoni e palleschi. L’Italia non è, non deve essere così: e noi in quell’Italia che non si parlava più, che si strillava addosso, abbiamo messo un luogo in cui bisognava tornare a parlare. Credo che questo sia stato anche il sentimento di Giovanni Floris, di Anna Maria Catricalà, di Lello Fabiani, di Fernando Masullo e dell’altro mio vecchio amico Andrea Valentini.

E’ da un po’ che non sento Giovanni. Il suo nuovo programma sulla 7 lo vedo solo a tratti e solo nella prima parte: più avanti, verso mezzanotte, sono un po’ troppo atterrito dai pericoli che si possono nascondere in un cono gelato o in un frigorifero. In compenso mi piacciono quasi tutti i suoi romanzi.

Che fa un giornalista quando un po’ si annoia? Scrive libri: è naturale. Io ho cominciato nel 2000, che a veder bene era ancora il secolo scorso e il passato millennio. Il primo libro sulla Corsica, il secondo sull’Istria, poi tre libri di cronache romane del Risorgimento: il terzo dovrebbe uscire fra poco dal Saggiatore. Ho altri progetti: almeno uno ancora sulla Corsica, quella del Settecento e di Pasquale Paoli. Mi piacerebbe anche scrivere romanzi, ma riconosco di essere piuttosto debole nell’invenzione.

Sono uscito dalla RAI nel 2012 e quasi contemporaneamente sono uscito da Roma e dalla casa vicina al Laterano. Adesso sto qui in campagna, nella campagna sabina: la più bella del mondo. Qualche volta la città, la mia città, un po’ mi manca. E ne so bene le ragioni: è sempre nostalgia di quella vita che non si ferma mai, perché c’è sempre qualcuno, a qualsiasi ora della notte, che veglia. Se c’è anche qui, non si vede.

L’ho fatta un po’ lunga, non è vero? Eppure spero di potere col tempo aggiungere qualcosa.

 


 

Stefano Tomassini (Roma, 28 settembre 1950 – Magliano Sabina, 10 gennaio 2021)