Nel 2011, sempre dal Saggiatore, esce il mio nuovo libro: Roma, il papa, il re. L’unità d’Italia e il crollo dello Stato Pontificio. Parla del decennio in cui si prepara e poi si realizza l’unificazione di gran parte della Penisola e fra il 1859 e il 1861 lo Stato Pontificio  perde successivamente le Legazioni di Emilia e Romagna, le Marche, l’Umbria e la Sabina. Le copertine e molte illustrazioni di questa serie risorgimentale riproducono i quadri del pittore Ippolito Caffi, che fu anche testimone diretto delle vicende romane ai primi tempi di Pio IX. Nella copertina di Roma, il papa, il re si vede la Girandola, il gioco pirotecnico che si faceva da Castel Sant’Angelo e poi fu trasferito al Pincio.

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Incipit
Stefano Tomassini Roma, il Papa il Re
A Roma giugno è il più bel mese. E’ vero che al tempo di cui parlo i forestieri, i turisti, ai primi caldi, lasciavano la città e la sua mal’aria. Proseguivano il viaggio, magari verso Napoli, o, i più affezionati, salivano sui Colli Albani, decisi a non riscendere prima che fosse almeno settembre. I privilegiati trovavano ospitalità nelle ville dei nobili, anche loro per la maggior parte in fuga dalla calura e dalle febbri. Ovviamente il popolo non si muoveva. E quel popolo di Roma, come quello odierno, il popolo che viveva e vive qui tutto l’anno apprezza di giugno la stabilità del tempo e naturalmente la durata dei giorni, con quella straordinaria sensazione di poter vivere la vita più a lungo.

Questa illusione non è solo un pensiero, buono per consolarsi dei limiti dell’esistenza. E’ anche un atteggiamento pratico, che tanto più si sviluppa e realizza quanto più corre la luce del giorno. Si concentra dunque in quelle ore in cui la città e il sole si salutano per darsi appuntamento all’indomani e sembrano fare un po’ come i due compari che si accompagnano e riaccompagnano sul sentiero breve che divide le due case. Il tramonto è lunghissimo. E lunga è la fase in cui il sole, orizzontale rispetto alla città, ne diviene parte e assume caratteri umani, di mitezza, di fiducia, quasi di amicizia.

Ogni romano che abbia un buon concetto di sé si sente padrone allora non solo della propria vita, ma anche del tempo e dello spazio, della città e quindi del mondo, i cui confini non dovrebbero essere troppo più lontano di Frascati. Così, più o meno, e con maggior ragione di quasi tutti i suoi concittadini, doveva sentirsi il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato di Sua Santità Pio IX allora felicemente regnante, quel martedì 12 giugno 1855, mentre scendeva la scala del Palazzo apostolico vaticano. Erano circa le sei e mezza ed era appunto una bella giornata di sole.

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image013_700xNel 2013 esce l’edizione tascabile. La copertina è ancora una volta da un’opera di Ippolito Caffi.

Un altro brano da Roma, il papa, il re. E’ dal capitolo intitolato “Roma” e parla di come i molti turisti e pellegrini potevano vederla alla metà dell’Ottocento, ma anche di come toccava viverla ai romani:

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Roma puzzava. Non c’è il minimo dubbio. Qua e là, ogni poco, girato un angolo, preso un vicolo, accostato un muro, puzzava e, secondo quanto e quale vento tirava, la puzza poteva anche arrivare lontano. Qualcuno che conosca i luoghi potrà obiettarmi che Roma ancora oggi molto spesso puzza. Rispondo che è vero, ma non con quella frequenza, e poi gli odori odierni non sono quasi mai gli stessi di allora. Bisogna immaginarsi un grande odore di cavolo, che riesce a ricordare solo chi abbia talvolta frequentato certi refettori di istituti religiosi. Lo stesso odor di cavolo che, senza che se ne sia mai davvero spiegata la ragione, si mischiava e forse tuttora si mischia all’incenso nelle sacrestie. Più in generale doveva essere odore di frutta e verdura andata a male, di fiori velocemente appassiti. Non mancavano le variabili, naturalmente, e a quegli effluvi dominanti se ne potevano unire altri, più o meno improvvisi, ma tutti prevedibili: solo una piccola parte del popolo di Roma si preoccupava di possedere un vaso da notte, men che meno pregiato, quanto ai gabinetti ci voleva ancora quasi un secolo perché s’introducessero in tutte le abitazioni. Dentro le mura aureliane pascolavano vacche, pecore, capre, qualche maiale, magari più in periferia, e dappertutto cavalli, infinitamente più numerosi che oggi. D’estate, dunque, il naso poteva essere aggredito quasi a ogni passo. D’inverno, o piuttosto in qualsiasi periodo di ripetute piogge, questa varietà doveva essere sostituita da una uniformità opprimente: l’odore della melma, di quell’umido che unisce tutto e s’attacca a ogni cosa, un odore di baracche ammuffite, di panni mai del tutto lavati e mai del tutto asciutti, l’odore, in fondo, della povertà.