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Un ravennate illustre, Santi Muratori, storico bibliotecario della Classense, una volta ha dato della sua città una definizione sintetica e terribile: “Ravenna è quasi unicamente il suo passato”. Questa è l’idea, l’immagine con la quale fatalmente ci confrontiamo ogni volta che torniamo a Ravenna. Pure, non c’è sentenza che non possa trovare le sue attenuanti e non c’è esperienza che non conosca variazioni. In breve, Ravenna a ogni incontro è capace di apparire un po’ diversa dalle volte precedenti e, anche a voler ragionare solo del passato, che certo sembra definire la città molto più di qualsiasi presente, bisogna tuttavia considerare che il passato non è unico, è bensì plurale, è una serie, insomma, una fila lunghissima di passati. Per cui mi risulta un po’ falsa, per quanto affascinante, anche un’altra sentenza pronunciata da Muratori in quella stessa occasione, una conferenza tenuta a Firenze il 30 maggio 1931:

Ravenna. Anche il nome ha una fissità precisa, immutabile, come pochi, come forse nessuno, tranne quello di Roma: da 2500 anni questo nome risuona tale e quale, senza varianti e senza deformazioni, fuso nel bronzo della storia.

Il nome è fisso, sì: ma l’attributo? Vorrà pure dire qualcosa che i ravennati, i ravennates, non si contentino di chiamarsi solo a questo modo e si chiamino anche ravegnani. Non c’è mai niente di fisso nella storia, che non è fatta di bronzo, se non a volte per raccontarla, ma è di carne, d’acqua e aria, di terra e fuoco, di sentimenti, interessi, aspirazioni, condizioni, di idee anche, e di parole che, fatte le debite eccezioni – e Ravenna sarà pure una – sono spesso volatili come l’aria.

L’ultima volta che siamo andati a Ravenna eravamo in quattro, più esattamente cinque, se si conta anche Teodoro. Avevamo raggiunto Jacopo a Modena per vedere la mostra di fine corso dell’Accademia di fotografia. All’ultimo minuto anche Giulia aveva deciso di unirsi alla spedizione. Per inciso è stato a Modena che per la prima volta, quella, ho potuto rendermi conto, come quasi lo toccassi con la mano, d’un certo modo in cui nascono le città. Passeggiavamo, Adriana, io e il cane, nel tratto della via Emilia che va dall’albergo, dove avevamo dormito, al centro storico. L’albergo era quasi in periferia: dalla terrazza della nostra camera avevo prima costatato attorno ampi spazi verdi o semplicemente vuoti, interrotti dall’ospedale, quasi di fronte, e da alcune case sparse attorno, le più vecchie di tono ancora quasi rurale. Una volta scesi e incamminati verso il centro, alla ricerca anche d’un caffè o d’un cappuccino da aggiungere alla colazione fatta in camera, abbiamo visto lentamente crescere le traverse della via Emilia. Là dove avevamo dormito non era neppure ancora una città: questo è il destino dei palazzoni a quattro o cinque stelle, votati a una ipotetica facilità di movimento e una assoluta neutralità ambientale.

IMG_3194Andavamo avanti, nella nemmeno lunga passeggiata, e i palazzi crescevano e salivano, senza però mai arrivare a nascondere il profilo più alto, elegante, nobile, della Ghirlandina. A un incrocio, sulla destra, ci siamo trovati davanti una stele funeraria – il suo calco – ritrovata nel 1998 più o meno in quello stesso posto. Ho pensato che la via Emilia funzionava e funziona esattamente come l’Appia: collegava i vivi, e anche i vivi con i morti. Le città, i borghi, i villaggi nascevano lungo la strada, al primo incrocio buono, al primo posto veramente utile.

Le strade sanno di geografia e di storia molto più di quanto potremo mai sapere noi. Così, poco dopo, quando Giulia e Jacopo ci hanno raggiunto davanti all’albergo, dov’eravamo intanto tornati, e dopo aver deciso che saremmo andati a Ravenna, dove mio figlio non era ancora mai stato, ho proposto di non andare a prendere l’autostrada, ma di continuare a seguire la strada su cui già eravamo. Speravo appunto che attraverso la via Emilia avrei capito qualcosa di più del passaggio, che supponevo lento e appena percepibile dall’Emilia alla Romagna. La delusione è arrivata presto: la strada era leggibile in qualche modo solo fino alla babilonica periferia di Bologna. Credo sia ormai così per tutte le consolari romane: libri che da decenni si pubblicano e quindi si leggono, ovvero si percorrono, a dispense e per di più in diverse edizioni successive. Provi, chi vuole, a fare il percorso della Flaminia come fu inventata e a non trovarsi sballottato fra i bis e i ter delle sue varianti; provi l’Aurelia, chi non ha tanto fretta di arrivare in Francia, ma faccia presto, prima che sia tutta raddoppiata e non si trovi magari a dover pagare pedaggio. Nella periferia di Bologna, poi, c’era il traffico di Bologna a un’ora che sarà stata attorno a mezzogiorno. Questo mi ha deciso ad andare a prendere l’autostrada, rinunciando all’esperimento della via Emilia e quindi passando discosto da Castel San Pietro e da Imola, dove da qualche parte, nel paesaggio, nelle case, nel modo che queste avessero avuto di stare fra loro e sulla vecchia strada consolare, avrei potuto forse riconoscere l’ombra d’un confine, un’inezia qualsiasi che dicesse: qui è già Romagna. Passata Imola abbiamo imboccato la superstrada per Ravenna e in poco tempo siamo arrivati.

Abbiamo lasciato l’auto al parcheggio vicino a San Vitale. Siamo andati a cercare un albergo per la notte. Dal giorno prima, da due giorni prima, forse già da tre, io e mia moglie ogni tanto pensavamo: una vacanza, sia pure breve, noi quattro, cinque col cane. Che non succede è forse più di dieci anni. Ho detto che lo pensava anche Adriana non perché ce lo siamo detto: non ce n’è bisogno. Tre camere: una più grande per noi due e Teodoro, una ciascuno per Jacopo e Giulia. Non troppo dispendioso, in ogni modo. L’albergo, anche questo vicino a San Vitale, è tranquillo, pulito, confortevole e si distingue per l’illuminazione della nessuna fantasia del nome: si chiama Bisanzio.

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Bisanzio, sì, la città che poi ha preso il nome da Costantino, “Istanbul… Costantinopoli”, come diceva una canzone di quando ero ragazzino, la capitale di Giustiniano e Teodora, l’imperatore e l’imperatrice che hanno ancora il posto d’onore nell’abside dietro l’altare di San Vitale. Giustiniano ha una faccia quasi bonaria, popolana e popolare, che sembra chiedere fiducia e consenso: è un politico, come se ne incontrano ancora oggi. Come se ne incontravano soprattutto qualche tempo fa, specialmente in giro per i Balcani: era d’altronde balcanico anche lui, illirico al tempo suo. Mi fa pensare a quei dittatori, satrapi, carcerieri e assassini industriali, che noi occidentali c’ingegnavamo di avere tuttavia in qualche simpatia, facendoci scrupolo, non solo d’ignorare cosa potesse davvero succedere nei loro paesi, ma anche di far finta di non sapere ciò che sicuramente era successo: mi fa pensare al maresciallo Tito, insomma, e un poco forse anche a Ceausescu. Teodora, di fronte al marito, di là dalle tre finestre che li separano, è più aristocratica, regale, è alta e magra, perfettamente bizantina: e infatti a Bisanzio era nata.

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Come si sa, era molto chiacchierata; di più, era da molti considerata la personificazione stessa di tutti i vizi e specialmente di quello della lussuria. Il principale autore di questa maldicenza è Procopio di Cesarea, autore della Storia segreta, qua e là forse un poco esagerata. Ma la sostanza di una gioventù molto agitata e d’una vita di non ottimi costumi, questa dev’essere abbastanza vera. Mima, ballerina, fin da bambina, negli spettacoli del circo, poi attrice e ancora danzatrice, sempre meno vestita, quindi meretrice, prima per bisogno, poi anche per vocazione: questa è la strada contorta che avrebbe poi portato Teodora all’incontro con Giustiniano e quindi al trono. Procopio non si dà pace di questo:

Teodora senza alcuna fatica ascese al trono imperiale, non essendosi Giustiniano vergognato del matrimonio con lei, quando avrebbe potuto, nella universa ampiezza dell’Impero romano, scegliere in moglie una donna nobilmente nata sopra tutte le altre, educata in elevata famiglia, abituata al pudore, insigne per pudicizia, elegantissima di forme, e vergine di corpo, e in ogni cosa compitissima.

Tredici secoli dopo Ferdinand Gregorovius esprime meraviglia e forse, per quanto controllato, anche un po’ di scandalo per il fatto che nei mosaici di San Vitale, “a fianco di sacri personaggi”, siano stati rappresentati i “ritratti profani e contemporanei” di Giustiniano e dei suoi cortigiani. Nota di non aver mai visto nulla del genere, perché l’unico esempio che gli torna in mente è il Carlo Magno del triclinio al Laterano, il quale appunto “non era destinato che a una sala da pranzo”. Quanto a Teodora, lo storico tedesco sembra largamente condividere il giudizio di Procopio e scrive:

Di fronte, sulla parete sinistra della tribuna, si vede la sposa dell’imperatore, Teodora, un tempo prostituta a Bisanzio e famosa per l’abilità sfrontata con cui riproduceva sul teatro le scene più impudiche, in seguito imperatrice d’Oriente e d’Occidente; essa pure è riprodotta con l’aureola di Cristo sulla testa, in un santuario, in mezzo ai Santi!

E’ vero: Teodora ha l’aureola, come Giustiniano. Una certa idea della divinità imperiale dev’essere durata ancora a lungo, magari soprattutto nelle menti degli imperatori, anche molto dopo l’affermazione del cristianesimo. Non doveva fare in ogni modo molta più confusione di quella che già facevano le diverse sette ed eresie. Il problema più specifico, segnalato anche da Gregorovius, era che Giustiniano e Teodora, oltre a non essere due stinchi di santi, erano “contemporanei” ai mosaici che li raffiguravano nella chiesa di Ravenna. Un altro e forse poco considerato aspetto della faccenda lo trovo in alcune righe di Ravenna e le sue memorie, opera pregevolissima di Pier Desiderio Pasolini, figlio devoto e studioso di quel Giuseppe, che fu ministro di Pio IX, gonfaloniere della città e poi anche senatore del Regno:

Giustiniano imperatore che personifica il diritto romano, perché attuò il sogno di Cesare e di molti imperatori riunendo in un sol corpo tutte le leggi, Teodora, la imperatrice romanzesca, non videro mai Ravenna, ma oggi soltanto tra noi li trovate, tra noi che li contempliamo da più di quaranta generazioni; perché qui in quell’abbigliamento, in quell’atto imperatorio vollero essi mostrarsi ai loro sudditi dell’Occidente e rimanere eterni agli occhi dei posteri.

Si notano subito il giudizio positivo su Giustiniano e un benevolo sorvolo sulla vita “romanzesca” della consorte. Ma si nota anche e di più quella precisazione, “non videro mai Ravenna”, seguita subito da una botta d’orgoglio cittadino: “ma oggi soltanto tra noi li trovate”. Giustiniano, dunque, non arrivò mai a Ravenna – mandò Belisario a riconquistarla – e neanche Teodora venne mai, ché ne aveva meno motivo del marito e ne ebbe anche meno tempo, essendo morta molto prima di lui. Però si fecero ritrarre in questi mosaici, determinando così una sorta d’incantesimo che ancora dura e che è certamente parte di quel fenomeno costatato da Santi Muratori: “Ravenna è quasi unicamente il suo passato”. Passato ingannevole, oltretutto, quasi simile a un imbroglio: Giustiniano e Teodora, aureolati, se ne stanno qui come se questa fosse la loro capitale, come se avessero intessuto qui le loro trame e i loro diversi peccati, come, insomma, se Ravenna e Bisanzio fossero una sola cosa. Stesse attento, Pier Desiderio Pasolini, andasse piano col suo inno all’incantesimo ravennate: meglio sempre esser prudenti in queste cose, perché se fosse così, o fosse soltanto così, se Ravenna fosse Bisanzio, allora sarebbe niente più che una finzione.

Non lo è, per fortuna, non lo è per almeno un paio di motivi che trovo qui stesso, in San Vitale. Il primo è nella storia vera che vedo raffigurata nei due mosaici, inseparabili l’uno dall’altro. Con buona pace di Procopio, a me pare prima di tutto una storia d’amore. Non nego che possa incidere in questa mia valutazione una certa rassomiglianza che ho notato fra Teodora e Cher, l’attrice e cantante americana della quale da tempo subisco il fascino. ravenna pesaro 023 - Versione 2Doveva essere bella, anche Teodora: e i ben pensanti, anche quelli che la scansavano, prima, beninteso, che diventasse imperatrice, quelli che, come scrive Procopio di Cesarea, temevano “di poter partecipare della infamia di lei, se per avventura soltanto toccassero colle loro le vesti sue”, tutti costoro dovevano almeno a tratti sentirsi nella condizione della volpe sotto all’uva. E quale soddisfazione poteva essere per la coppia questa sacra esibizione, questa dorata pubblicazione di matrimonio e di potere? Doveva essere così grande da mettermi perfino il dubbio che a Pier Desiderio Pasolini, pur così scrupoloso e attento, possa esser sfuggito un particolare, un giorno, un’ora, un attimo, in cui, misteriosamente, magicamente, con l’aiuto di uno di quei demoni che, secondo Procopio, avevano sempre a loro servizio, i due siano venuti a Ravenna, qui, a San Vitale, a vedere l’effetto che facevano. Una storia d’amore e di potere, d’un uomo e d’una donna perfettamente uniti e combacianti, nel bene e nel male, senza differenza. Questo, forse, non è solo il passato: è piuttosto un eterno presente, almeno un presente molto duraturo. Ma se i sentimenti, le passioni, di due esseri umani, non bastassero da soli a smuovere, almeno, a liberare, in qualche modo, Ravenna dalla condanna all’eterno passato, ecco che ci pensa Ravenna stessa, che, l’ho detto, è capacissima di variazioni e anche di sorprese.

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La lezione è tutta dentro questa chiesa. Basta portare lo sguardo in alto e ci s’imbatte nel secondo motivo, dirimente, questo, per il quale possiamo felicemente escludere di trovarci a Bisanzio. La cupola è adorna di spumeggianti affreschi di fine Settecento, con tanto di trompe-l’oeil e di cielo aperto in tondo, dove i santi Benedetto e Vitale salgono in gloria. Ho visto che alcune guide lamentano lo stacco, che giudicano troppo forte, fra il sotto e il sopra. Io, francamente, applaudo: non mi pare che si potesse far meglio. Se c’era, se c’è un qualche inganno, un imbroglio, un maleficio nella sacra esibizione di Giustiniano e Teodora e in quel loro essere perennemente a Ravenna senza esserci mai stati, ecco che tutto torna a posto. Ravenna non è più uguale a Bisanzio di quanto somigli a Roma. E Roma assorbe tutte le storie: di questo vive. Quegli affreschi hanno portato qua dentro una vita nuova: è un po’ come se avessero costretto a ridiventare chiesa quello che, passato più d’un millennio, doveva forse parere solo un monumento. Sono, in ogni caso, una testimonianza di evoluzione, non solo di questa chiesa, ma appunto di Ravenna.

Passiamo per il battistero: non so, non credo che venga ancora usato come tale. Andiamo verso il vescovado, senza entrarci. Via Romolo Gessi dopo poco cambia nome:

via Raul Gardini

Imprenditore (1933-1993)

La vita della città raccoglie tutte le storie, anche le più avventurose. Poco dopo incontriamo la tomba di Dante. Più che per la sua Profezia, Lord Byron è ricordato da queste parti e anche altrove per un’altra storia d’amore: quella con Teresa Gamba Guiccioli. Ecco un altro antidoto al veleno dell’eterno passato. Ho scoperto con vivo piacere che il poeta eroe aveva, come dire, i suoi limiti umani, le sue debolezze, le sue fissazioni – come i cavalli e le altre bestie che si portava appresso – era piuttosto incline all’ironia, ma non insensibile al pettegolezzo e alle più sorprendenti futilità. Per cui le lettere scritte da Ravenna fra il 1819 e il 1821 costituiscono un ritratto di città che non sfigura accanto ai mosaici di San Vitale.

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Aveva conosciuto Teresa a Venezia nella primavera appunto del 1819. La ragazza – non aveva vent’anni – si era appena sposata con il conte Alessandro Guiccioli, più che sessantenne, già due volte vedovo, per niente virtuoso, in compenso l’uomo più ricco di tutta Ravenna. George Gordon Byron, di anni, ne aveva poco più che trenta: era un bell’uomo ed era famoso. Forse prima che per George, fu un colpo di fulmine per Teresa che poi avrebbe ricordato:

La nobile e bellissima sua fisionomia, il suono della sua voce, le sue maniere, i mille incanti che lo circondavano, lo rendevano un essere così differente, così superiore a tutti quelli che io aveva sino allora veduti, che non potei a meno di non provarne la più profonda impressione. Da quella sera in poi, in tutti i giorni che mi fermai a Venezia, ci siamo sempre veduti.

Dopo qualche tempo la Guiccioli dovette seguire il marito a Ravenna. Byron forse esitò un poco, poi la raggiunse. Era il 10 giugno del 1819: trovò la città parata a festa per il Corpus Domini. Dieci giorni dopo scriveva al suo amico Richard Belgrave Hoppner, console inglese a Venezia, per farsi mandare i cavalli rimasti in laguna. Gli diceva anche di aver trovato Teresa gravemente ammalata, “che tossiva e sputava sangue”: “tutti sintomi – precisava – che sono scomparsi”. Lodava l’accortezza della donna, ma aggiungeva:

Non sarei tuttavia meravigliato di ritrovarmi una bella sera con un colpo di stiletto nel ventre. Non riesco proprio a indovinare il conte; viene spesso a trovarmi, e mi fa uscire con lui in una carrozza a sei cavalli. Il fatto è, credo, che si lascia completamente governare da lei; e, quanto a questo, io sono nella stessa condizione. La gente di qui non arriva a comprendere come ciò sia possibile, perché egli aveva la reputazione di essere geloso delle sue altre mogli: questa è la terza.

In una lettera del 29 giugno all’editore John Murray, Byron descrive il suo ménage e lo avverte di non meravigliarsene troppo, perché il costume è diffuso da queste parti e in italiano sintetizza: “così fan tutti e tutte”. Le condizioni di Teresa non migliorano: la tosse continua e in più c’è una febbretta che va e viene. Ogni tanto l’inglese si dimentica dell’ironia d’obbligo per lasciarsi andare a considerazioni più drammatiche:

Vedo madama tutti i giorni, e sono seriamente preoccupato della sua salute, che è in uno stato molto precario. – Perdendola, perderei un essere che si è molto esposto per me e che ho ogni specie di ragione per amare; – ma non pensiamo alla possibilità di questo evento. Non so cosa farei se ella venisse a morire; so tuttavia che il mio dovere sarebbe di bruciarmi le cervella, e spero che lo compirei.

In un’altra lettera a Hoppner, il 2 luglio, dice:

Temo vivamente che la Guiccioli possa cadere in uno stato di consunzione al quale la sua costituzione pare tendere. E’ così di tutti gli oggetti per i quali provo qualche specie di reale attaccamento. – La guerra, – la morte o la discordia li assediano. Basterebbe che io amassi un cane e che quello mi fosse attaccato perché mi fosse impossibile conservarlo.

Strano animale, questo Byron: teme la morte della fanciulla amata e intanto già coltiva la propria. Quello che più sorprende in queste pagine di vita ravennate è la miscela di distacco e partecipazione: da una parte l’amore, “il mio ultimo amore”, la sottomissione devota, dall’altra un senso incomprimibile di superiorità, una considerazione di sé sempre perfettamente distinta dal mondo osservato, di cui anche Teresa è parte. Così sorprende, e un po’ forse disturba anche, il fastidio col quale il poeta accoglie la notizia della sentenza di separazione di Teresa dal conte Guiccioli. Ne scrive all’amico Thomas Moore il 13 luglio 1820:

Non c’è che da lasciare le donne sole in guerra; perché esse sono sicure di conquistare il campo di battaglia. La contessa ritorna da suo padre, e io non posso vederla che con grandi restrizioni, tale è il costume del paese. I parenti si sono ben comportati; – io ho offerto una donazione, ma loro si sono rifiutati di accettarla, e hanno giurato che ella non vivrà mai con Guiccioli (poiché egli aveva cercato di farla riconoscere colpevole d’infedeltà), ma che la manterrà; e di fatto una sentenza è stata resa ieri in questo senso. Io sono, senza dubbio, in una situazione abbastanza cattiva.

Qualche mese prima, in febbraio, a Murray che gli chiedeva un libro sull’Italia e gli italiani, ha risposto:

Ho vissuto all’interno delle case e in seno alle famiglie, a volte semplicemente come amico di casa, e altre come amico di cuore della dama, e nell’uno e nell’altro caso non mi sento autorizzato a fare un libro su questa gente. La loro morale non è la vostra morale, la loro vita non è la vostra vita; voi non li comprendereste; non sono né inglesi, né francesi, né tedeschi, che comprendereste tutti. Fra loro, l’educazione del convento, l’ufficio dei cavalieri serventi, le abitudini di pensiero e di vita sono interamente differenti dai nostri costumi; e più entrate in intimità, più la differenza è sorprendente, al punto che non so come farvi concepire un popolo che è al tempo stesso moderato e libertino, serio per carattere e buffonesco nei divertimenti, capace d’impressioni e passioni insieme “improvvise” e “durature” (ciò che non troverete in alcuna altra nazione), e che attualmente non ha affatto società (o ciò che voi chiamereste così), come potete vedere dalle sue commedie: non ha commedia reale, neanche in Goldoni, e questo perché non c’è società che ne possa essere la fonte.

Viene quasi da rimpiangere il libro che Byron non ha voluto scrivere: un po’ più di tempo dedicato all’osservazione, un po’ di meno sacrificato a Dante, e il gioco era fatto. Può darsi, però, che alla fine non ci avrebbe dato molto più di quanto ci ha lasciato. E questo, non direi per discrezione, quanto piuttosto perché lo spirito d’osservazione inglese ha un limite nella facilità con la quale gli inglesi si mettono in testa qualcosa, alla quale si affezionano: perché allora l’Italia e la Romagna, poi, dovrebbero nascondere una società, quando appare così chiaro, a prima vista, che non ne hanno? Più avanti, nella stessa lettera, lo scrittore si allarga in una descrizione, molto ben fatta, dei costumi sessuali delle donne:

Queste signore hanno un sistema che ha le sue regole, le sue delicatezze e il suo decoro, che può così essere ridotto a una sorta di disciplina o di caccia ai cuori, da cui non ci si possono permettere che pochissime deviazioni, a meno che non si voglia perdere la partita. Sono estremamente tenaci, e, gelose come furie, non permettono nemmeno ai loro amanti di sposarsi se possono impedirglielo, e li tengono sempre, per quanto possibile, vicini in pubblico come in privato. In breve, trasportano il matrimonio nell’adulterio, e cacciano dal sesto comandamento la particella non. La ragione è che si maritano per i parenti e che amano per se stesse.

Come negare ciò che Byron stesso per primo ammette? Non c’è dubbio: il primo oggetto di osservazione, per questo spaccato di costume, è precisamente la contessa Teresa Gamba Guiccioli, la dolce, fragile, travolgente Teresa. La vita è così: un poco la si vive, un poco la si osserva. E nel guardarla, di solito, siamo meno generosi.

Se avesse scritto il libro di viaggio che gli chiedeva Murray, avrebbe detto qualcosa di più, di più compiuto e concludente anche, rispetto a quella illuminazione che non dura più d’un attimo? “Non ha società”. Perché Byron dice così? e perché nemmeno le commedie di Goldoni sarebbero vere, reali? Con quali strumenti si misura, si rileva l’esistenza d’una società? Ce l’ha con i preti? con il papa? E’ il solito tic antipapista degli inglesi? Mi sentirei di escluderlo: tanto più che parla più volte bene del cattolicesimo e pensa perfino a una educazione cattolica per la figlia Allegra. Resterò con i miei interrogativi, ma non posso tacere di altre contraddizioni che per me, d’altronde, sono una sorta di sale della terra. L’eroe della Grecia, il grande poeta, il mito stesso del romanticismo ottocentesco è un nobiluomo inglese che gira il mondo spendendo un fiume di soldi a beneficio delle cause che sposa e delle buone abitudini che conserva. E’ un rivoluzionario e un aristocratico. Lo dimostra in maniera sorprendente in una pagina di diario, scritta qui a Ravenna il 27 febbraio 1821:

Ieri sera c’è stata una rivolta al ballo, del quale io sono socio. Il vice legato ha avuto l’imprudente insolenza d’introdurre tre dei suoi domestici in maschera, – senza biglietti e a dispetto di tutte le rimostranze. Ne è risultato che i giovani del ballo si sono arrabbiati e sono stati sul punto di buttare il vice legato dalla finestra. I suoi domestici, vedendo la scena, si sono ritirati, e lui appresso a loro. Il reverendo monsignore dovrebbe sapere che non viviamo nel tempo della predominanza dei preti sul decoro. Due minuti di più, due passi avanti, e tutta la città sarebbe stata in armi, e il governo espulso.

Tale è lo spirito d’oggi, e quella gente pare non accorgersene. Quanto al fatto semplicemente considerato, i giovanotti avevano ragione, essendo sempre stati esclusi i domestici dalle feste.

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La cacciata dei servi dal ballo mascherato: non male come scintilla della rivoluzione. Del cattolicesimo forse apprezza solo il Purgatorio, la consolazione del perdono che, secondo lui, troppo manca ai protestanti: ma non apprezza i preti, tanto meno di questi tempi, con la rivoluzione alle porte, come gli assicurano gli amici, i carbonari di Romagna. Però il peccato grande, imperdonabile, di monsignor vice legato è quello di aver tentato di portare al ballo tre suoi domestici, non ammessi. La rivoluzione non ci sarà, almeno per il momento. Bisognerà aspettare la Repubblica Romana del 1849: e anche quella durerà poco e Lord Byron sarà già morto da un quarto di secolo.

Verso sera, quando siamo ripassati per la piazza del popolo, ho scovato, quasi mimetizzata fra le diverse lastre della pavimentazione, una targa che ancora si può leggere, nonostante si siano perdute molte delle maiuscole dorate che componevano l’iscrizione:

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L’ALBERO DE LA LIBERTA’
FU QUI PIANTATO
IL XV FEBBRAIO MDCCCXLVIIII
IL MUNICIPIO DI RAVENNA
A RICORDO
POSE IL XV MAGGIO DEL MCMIIII
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15 febbraio 1849: meno d’una settimana dopo la proclamazione a Roma della Repubblica e della decadenza del potere temporale del papa, ch’era stata la notte fra l’otto e il nove. Sei giorni, non di più, per saperlo, averne la conferma, per fare il palo e drizzarlo davanti al municipio, quasi che il generale Bonaparte fosse tornato e risuscitato anche. Si vede anche da questo con quanta impazienza i ravennati attendessero l’evento. Tutti i ravennati? tutti i romagnoli? Non si può mai generalizzare, tanto meno da queste parti, che hanno dato alla storia d’Italia il fior fiore della rivoluzione e della reazione, in alternanza a volte e a volte insieme. In mezzo, d’altronde stavano, gli altri, che non erano né rivoluzionari, né reazionari, o almeno non lo erano molto spesso. Erano forse quelli che Byron pensava non avessero, non costituissero una società: i suoi personaggi d’una commedia non reale, quella stessa commedia da una delle ultime sere di carnevale della quale egli stesso era stato spettatore e in qualche modo anche attore, se non altro in quanto socio rispettoso dei regolamenti.