Ci sono voluti tre anni per scrivere il mio terzo libro e cominciare Stefano tmassini storia avventurosa della rivoluzionne romanaun’impresa che non è ancora finita. Storia avventurosa della Rivoluzione Romana. Repubblicani, liberali e papalini nella Roma del ’48, edito da il Saggiatore nel 2008, è il primo volume di una serie dedicata alle vicende di Roma e, finché è durato, dello Stato pontificio nel periodo che va dall’elezione papale di Pio IX nel 1846 alla sua morte, nel 1878, circa un mese dopo la morte di Vittorio Emanuele II, il periodo insomma del Risorgimento. Questo primo volume ha naturalmente al centro la Repubblica Romana del 1849.

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Incipit
Chi fosse passato la sera del 14 novembre 1848 nelle strade che costeggiano il Corso fra l’ospedale di San Giacomo e il teatro Capranica si sarebbe potuto imbattere in un nutrito gruppo di uomini, almeno un paio dei quali sorreggevano un pesante fagotto. Se capitò a qualcuno d’incontrarli, certamente non chiese che cosa portassero: primo, perché quelli che facevano il lavoro più faticoso erano circondati dagli altri, che li coprivano; secondo, perché tutti insieme non dovevano ispirare sentimenti di confidenza; terzo, perché era notte e l’inverno ormai incombeva e, quarto, perché chi sostiene che i romani siano curiosi, allora vuol dire che non li conosce.

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Stefano Tomassini Storia Avventurosa della Rivoluzione RomanaNel 2011 è uscita dal Saggiatore l’edizione tascabile di Storia avventurosa della rivoluzione romana. Di questo libro vorrei citare ancora un brano, dal capitolo “Morte di un carbonaro”, in cui si parla dell’assassinio del ministro Pellegrino Rossi sullo scalone del Palazzo della Cancelleria:

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L’androne era una gran macchia blu, ma di un blu più spento, per l’ombra, certo, ma anche perché era il colore delle mantelline dei civici volontari, quelle che i romani chiamavano le panuntelle, perché non si lavavano mai e non si doveva. Servizio d’onore, davvero, per l’apertura del Consiglio dei deputati: i gloriosi reduci di Vicenza, tutti quelli che non s’erano adattati a trasferirsi in Romagna con la Prima legione romana e con il colonnello Galletti, erano schierati sui due lati. Dietro c’era altra gente: il cavaliere Righetti cercò invano qualche volto conosciuto. E c’erano altre guardie civiche. Vai a sapere che cosa hanno in testa? disse fra sé Righetti.

Rossi non disse nulla. E non sperate che dica ancora qualcosa. Il cocchiere, che si chiamava Joseph Decque, scese da cassetta e venne ad aprire lo sportello di sinistra, verso lo scalone. Scese per primo Righetti, poi Rossi. L’altro gli dette, come doveva, la precedenza. Rossi fece un primo passo, due, tre: allora il silenzio, che si teneva a malapena, fu di nuovo rotto. Si sentì un grido, “Abbasso Rossi”, e fu ripetuto, poi un altro “A morte” e un altro ancora, e poi “Ammazzalo”. E Righetti, che continuava a stare dietro di poco, si accorse che tutte quelle grida non erano di un uomo solo e neanche di pochi, erano un coro che sommergeva l’androne e saliva la scala. La grande macchia blu si muoveva come aveva fatto prima la folla nella piazza, si apriva e richiudeva, ma stavolta con più concitazione, come fosse percorsa da brividi di febbre.

Rossi era sul primo scalino, sul secondo, sul terzo. Lo strepito, da inferno, saliva la scala e arrivava fino all’aula parlamentare, tanto che qualcuno s’era affacciato per guardare in basso. Righetti non vedeva più il ministro: la macchia blu li aveva separati. Poi gli sembrò  per un attimo di vederne il profilo: sarà stato tre, quattro gradini avanti. S’era girato infatti: a vedere chi avesse avuto l’animo di colpirlo sul fianco con qualcosa, come fosse un bastone oppure, forse, l’impugnatura d’una daga. S’era girato a destra e in quello stesso attimo da sinistra un pugnale lo colpì sul collo. La macchia blu si aprì e Righetti, seguito dal cocchiere, fu accanto al ministro, il quale tuttavia saliva ancora.

Ancora due scalini. Cadde. I due lo ripresero, lo sorressero. Ancora pochi scalini e cadde di nuovo. Dovettero prenderlo per le braccia e per le gambe. E mentre questo accadeva c’era qualcuno sotto e sopra che gridava: “Rossi è colpito, muore”. Arrivarono al primo piano, all’appartamento del cardinale Ludovico Gazzoli, prefetto della Congregazione per il buon governo. Rossi fu coricato su un divano. Arrivarono dall’aula due deputati, Diomede Pantaleoni e Sebastiano Fusconi, entrambi medici. Gli tolsero la cravatta e videro che non c’era nulla da fare. Il conte provava ancora a parlare, ma non riusciva. Fu chiamato il parroco di San Lorenzo in Damaso, la chiesa che è nel palazzo: gli dette l’estrema unzione. Rossi non disse “Gesù mio, misericordia”, come qualcuno poi gli avrebbe messo in bocca. Non parlò, non pregò, anche se non si può certo escludere che potesse volerlo. Non perse conoscenza finché ebbe sangue e respiro. Morì poco prima delle due pomeridiane del 15 novembre 1848.