Saranno state le tre, al più tardi le tre e mezza, del pomeriggio d’un sabato d’estate.

Credo fosse agosto e ricordo che faceva molto caldo, ma un caldo secco, diverso da quello umido image002che più spesso fa da queste parti: sicché, inseguendo l’ombra nelle strade strette, si poteva passeggiare quasi con piacere. Ero solo. Già prima di pranzo avevo annunciato ad Adriana la mia intenzione di fare un salto a Civita per visitare con un po’ di calma il duomo, nel quale, in tanti anni, eravamo entrati sì e no un paio di volte. Non so dire se a volte mia moglie intuisce che ci sono momenti, d’altronde sempre più rari, in cui devo fare qualcosa in solitudine, oppure se avesse di suo qualcos’altro da fare.

Come sa chi di tanto in tanto entra in una chiesa in orari diversi da quelli delle funzioni religiose, non è difficile ritrovarsi soli. Non ci si fa più nemmeno tanto caso e non si è normalmente portati a pensare alla propria solitudine come a una condizione di image004particolare privilegio. Quel pomeriggio però era diverso, perché improvvisamente, appena entrato, mi sono trovato a pensare che stavo approfittando della siesta di tutti i civitonici, compreso il prete, e che tutto il duomo era gentilmente, liberalmente, distrattamente a mia disposizione. Non negherò, certo, che il capolavoro assoluto, unico, sia la facciata, con il lungo e largo portico spezzato al centro dall’arco quasi trionfale: una specie di prova architettonica che il Medio Evo non esiste e il rapporto fra antico e nuovo, fra classicità e Rinascimento si può risolvere in un attimo di felice intuizione. Ma questo, in fondo, già lo sapevo. Era dentro che si potevano scoprire tesori sconosciuti. E li ho scoperti, infatti.

Non mi dispiacciono quasi mai le chiese che, essendo state completamente rifatte al loro interno, sorprendono il visitatore per il contrasto con l’esterno. Il passaggio da fuori a dentro, nel duomo di Civita Castellana, è come l’ingresso in un altro mondo. Prediligo il image006Settecento anche in architettura. E questo è il caso del duomo. Un’iscrizione sull’arco dell’abside racconta che “in onore della Beatissima Vergine Maria di Civita Castellana, il vescovo Giovan Francesco Tenderini da Carrara, il clero, i cittadini, il popolo, con preghiere, con denaro, con sudori, costruirono nel 1740”. A proposito di scritte ne ho trovata una, prossima all’entrata, che mi è sembrata di tutte la più suggestiva. Era su un cartellino incollato in cima a una specie di portasciugamani, dal cui braccio orizzontale pendevano, ordinatamente piegati, alcuni teli leggeri, di diversi ma abbastanza austeri colori. La scritta diceva:

Se pensi che il tuo abbigliamento possa offendere la dignità di questo luogo o la sensibilità di chi lo frequenta usa uno di questi foulards.

E sotto, un po’ più piccolo:

P. S. Ricordati di riportarlo al suo posto!

Un vero piccolo inno alla tolleranza, unito a un’ammirevole economia di parole. Si poteva dire in cento modi diversi. Per esempio: “Se sei in calzoncini corti, che ti si vede quasi tutto e il resto lo s’immagina fin troppo bene, prendi questo e fattici un pareo”. Oppure: “Se il image008Signore ti ha dato due seni generosi, che metti al sole anche quando sei a passeggio per una città, indossa questo scialle e magari tienitelo stretto davanti”. E tutto questo solo per rispetto: del luogo sacro, certo, ma anche degli altri. Chissà perché il caso mi si applicava facilmente solo alle donne: come se un uomo in canottiera potesse dar meno disturbo al luogo e al pubblico. Faticavo, è vero, a immaginare uomini in pareo o in toga aggirarsi per la cattedrale pretendendo così di dare meno nell’occhio. Ma è stata solo teoria, che è anche durata poco perché, come ho detto, ero solo, e oltre tutto temevo di poter smettere di esserlo da un momento all’altro.

Della sistemazione tardobarocca prima d’ogni altra cosa ho ammirato i colori – un grigio, chiarissimo, a tratti vagamente verdino, e un bianco, come di panna montata – che aggiungevano luce alla già molta che entrava dalle finestre. Mi sono perso per alcuni attimi image010 image012 image014nella visione della cupola, che forse andrebbe detta rococò: un capolavoro nel suo genere, quasi un’opera di alta pasticceria, magica torta concava invece che convessa. Quando fra il 1736 e il 1740 fu fatto il restauro, ovvero la rivoluzione, di questa chiesa di Santa Maria Maggiore, l’unica parte lasciata più o meno intatta fu il pavimento cosmatesco, che ancora crea una continuità con la facciata e al tempo stesso si accorda perfettamente col nuovo assetto interno. Non disturbano neanche, tutt’altro, gli stucchi di bianco e d’oro, in alto: angeli che si presentano da putti e virtù seducenti come fossero ninfe. La rivoluzione più importante, in ogni modo, e probabilmente anche la più divertente, mi pare sia stata quella di abolire le navate minori e sostituirle con due serie di cappelle comunicanti fra loro attraverso porte tenute in asse. Il risultato è che a destra e a sinistra, invece della visione della vecchia navata, abbiamo la prospettiva o l’illusione di un corridoio, ingombro di qualche sedia o inginocchiatoio, contraddetto anche a un certo punto dalla balaustra d’una cappella che si è allargata, e chiuso in fondo dalla scala che sale al presbiterio: uno spazio, insomma, continuamente mobile, senza dubbio più allegro di quanto possa mai esser stata una navata medievale, e laterale, per giunta.

Dal presbiterio, attraverso una scaletta, sono sceso nella cripta, anche quella illuminata più di quanto mi aspettassi. Continuavo a stupirmi della facilità con la quale potevo andare image016ovunque e vedere tutto, senza che nessuno me ne chiedesse conto. Prima o poi, pensavo, sarebbe pur comparso un prete, un sacrestano, un fedele, un pellegrino, un turista, magari un bagnante togato, reduce dal lago di Vico: e a tutti questi avrei dovuto quanto meno sorridere. Invece no, nessuno ancora. Mi sono lasciato circondare dalle colonnine – ventisei in tutto, ho poi saputo, molto tempo dopo, da chi le ha contate – ognuna con il suo capitello diverso, ognuna del suo marmo, messe in fila a formare nove piccole navate, corte e cortissime, che, se Dio vuole, non devono portare da nessuna parte.

Sono risalito al presbiterio e lì ho trovato un’altra porta, con un’altra scaletta che scendeva, e sulla porta una freccia che indicava: “Oratorio del sacro cuore di Maria. XII sec.”. La cortesia, la liberalità della casa, dunque, non si limitava a offrire indumenti a chi ne fosse image018sprovvisto o non provvisto abbastanza, si spingeva fino allo scrupolo, fino quasi al puntiglio, nel segnalare al visitatore qualsiasi occasione avesse di conoscere qualcosa che non ancora conoscesse e di cui ignorasse anche l’esistenza. Con scrupolo e puntiglio pari all’offerta, sono rapidamente sceso all’oratorio, che viene detto anche sacrestia vecchia. Non ho fatto a tempo a scendere l’ultimo scalino che subito mi sono accorto d’un cristiano, mangiato sulla testa da un leone. Il leone sta di guardia a un pluteo, anche quello cosmatesco, spostato qui dalla chiesa superiore al tempo della risistemazione. Il cristiano sta lì che soffre, nella stessa posizione, si può supporre, da circa otto secoli. Il cristiano è nudo, come usano i cristiani sotto i leoni. Quello che salta all’occhio è che il membro virile, come si dice, completo di tutto, è bene in vista ed è grande quasi come il viso. Questo mi ha dato molto da pensare.

Ho pensato anche, per esempio, che quel povero dannato potesse essere stato uno dei motivi del trasferimento da sopra a sotto, in uno spazio più riservato, dei plutei che in origine dovevano separare il presbiterio dalla navata. Sarebbe stato insomma una delle ragioni dello scombussolamento completo, per quanto dal mio punto di vista felice, del duomo di Civita Castellana. Dopo pochi attimi la teoria mi è sembrata troppo macchinosa. Hanno imbracato Michelangelo. Si racconta che Pio IX abbia ricoperto di foglie di fico tutte le statue che gli vennero a tiro nel suo lunghissimo pontificato. Si sarebbe dunque fatta scrupolo, la Santa Chiesa Romana, di evirare in qualche modo quest’anima dannata? E’ anche vero – ho pensato poi – che il cristiano nudo di Civita non è il solo in queste condizioni. Già all’ingresso, di fianco alla porta principale, ne avevo visto un altro: quello però era di proporzioni minori – le proporzioni generali, intendo, e non quelle specifiche degli organi che erano oggetto della mia meditazione – era più consumato dal tempo e dagli agenti atmosferici che evidentemente non risparmiano del tutto il pur profondo porticato e forse già in origine doveva essere più stilizzato, sommario, povero di dettagli, anche anatomici. Tutti ragionamenti, che sembrano lunghi e anche un poco stupidi ora che mi trovo a trascriverli, ma che mi hanno occupato per non più di qualche attimo allora, quando mi trovavo a farli. Le impressioni, come ognuno sa, non si comandano: si rincorrono, rimbalzano una sull’altra, come fossero palle di biliardo. Alla fine me n’è davvero rimasta solo una: l’idea che in quell’oratorio, o sacrestia, in quel ripostiglio del passato, avessi trovato tracce di modi d’essere, di vedere e di rappresentare il mondo – questo mondo qui – molto più antichi delle ragioni per le quali il luogo in cui mi trovavo era stato costruito, era vissuto e continuava a vivere. E quei ricordi, quelle tracce, quelle presenze, misteriosamente, ma anche naturalmente, continuavano a vivere con il luogo, a influenzarlo, a renderlo più complicato, o forse perfino più semplice.

Tracce, dico: al plurale. Perché non c’era solo l’uomo nudo là sotto. Sulla parete di fronte, un po’ discosto e appoggiato al pavimento, c’era un bassorilievo – si direbbe quasi un intaglio, tanto era piatto il fondo e tanto poco rilevate e piatte, a loro volta, le figure – Stefano Tomassini, Civita Castellana, Guidache raccontava una caccia, certamente più vecchia d’un millennio, caccia al cinghiale, come s’è sempre usato da queste parti, e come si poteva arguire dalla zanna della bestia, la prima da sinistra in basso, colpita dalla lancia d’un cavaliere. Attorno al cinghiale una muta di cani: sei in tutto, perché di più non ce ne stavano. Più in là, verso destra, altri tre cacciatori, uno a cavallo e due a piedi: suonavano tutti e tre il corno, come fossero in Inghilterra. Spartivano la scena quattro alberi, malamente assortiti, malamente fatti, che tuttavia mi hanno ricordato quelli che salivano il Soratte nell’oratorio di San Silvestro ai Santi Quattro. Chissà perché ho pensato subito ai longobardi: come se fossi un conoscitore d’arte longobarda. Ma ce l’avevano poi, anche loro, un’arte? E c’erano arrivati qui, a Civita, al tempo loro? Ho letto poi che questo piccolo capolavoro di barbarie allegra sarebbe stato fatto fra l’ottavo e il nono secolo: più o meno corrisponderebbe. I franchi stavano per fregarli e loro andavano a caccia.

Stefano Tomassini, Civita Castellana, GuidaPiù in alto, sulla stessa parete, ho visto un angelo benedicente o annunziante: gli angeli, di mestiere, annunciano e non benedicono. E’ un angelo quadrato, più o meno come la lastra di marmo in cui è scolpito: anche la testa è quadrata e dalla veste, in basso, gli spuntano due piedi quasi da elefante. Non ha grazia, non ha una minima idea di bellezza o di eleganza. Ha solo presenza. Astanza: avrebbe forse detto Cesare Brandi. Sta di fatto che m’è sembrato il primo angelo cui abbia provato a dare forma il Padre Eterno.

Saranno state le quattro, più o meno – chi può dirlo? – quando sono uscito e ho ritrovato qualche umano in giro per Civita Castellana.