Quattro anni e mezzo fa, domenica 30 dicembre 2012, siamo finalmente saliti in cima al monte Soratte, là dove è l’eremo di San Silvestro. Eravamo in tre: Adriana, io e Teodoro, il bassotto tedesco avuto in regalo dodici anni ancora prima, per il mio cinquantesimo compleanno.

Avevamo un po’ discusso, al mattino, se fosse o no il caso di portarlo, perché a dicembre del 2012 gli anni di Teodoro erano già più che dodici, così come i miei erano sessantadue suonati: il conto con lui è stato sempre facile. Sarà troppa fatica per lui? ci chiedevamo.

Stefano Tomassini, Soratte, GuidaIo, prima, tante volte avevo osservato il Soratte dall’autostrada o dai giardini pubblici di Magliano, oppure salendo la stradina che è dietro casa nostra, qui a Coll’elmo. D’altronde il Soratte non è monte che non si faccia guardare, che non costringa a guardarlo: basta che entri un attimo nell’occhio di qualsiasi viaggiatore, perché quello gli punti necessariamente tutti e due gli occhi. E se questo accade durante una passeggiata in campagna, va più che bene, se ci si fissa, mentre si guida a centotrenta all’ora, è naturalmente molto diverso. Negli ultimi tempi, osservandolo, mi ero chiesto soprattutto se non fosse per caso troppa fatica anche per noi. Un po’ di dolore alle ginocchia, quel male oscuro che per consolarci chiamiamo sciatica o più dottamente sciatalgia, il male ai piedi coltivato per decenni sui sampietrini di Roma: tutto congiura per smorzare gli entusiasmi di una coppia ultrasessantenne.

Stefano Tomassini, Soratte, GuidaQuanto al cane, finalmente avevo fatto presente a mia moglie che Teodoro trascorreva la metà della sua giornata a correre avanti e indietro sul piazzale davanti a casa, sviluppando in modo maniacale il suo rapporto con legni, sassi, ossi e anche probabilmente fantasmi, considerando che la vista, mai eccezionale, s’era fatta col tempo davvero scadente. Invece che farlo in piano, le avevo detto, lo farà in pendenza.

Siamo arrivati a Sant’Oreste che era già quasi mezzogiorno. Il paese sta appoggiato su una sorta di terrazza a Sud-Est del monte. Lì l’altitudine è di quattrocento e venti metri, la cima alla quale eravamo diretti è a seicento e novantuno: questo naturalmente significa che ci sono duecento e settantuno metri da salire a piedi. Metro più, metro meno, s’intende: perché i posti dove parcheggiare l’auto si trovano in una parte nuova, un po’ arruffata, di Sant’Oreste dove alcune case moderne si ripagano di una franca e quasi allegra bruttezza con la grandiosa vista di cui quasi tutte godono o verso la valle tiberina o verso la campagna che a Occidente scende verso Roma assieme alla Flaminia.

Da quella domenica posso con sicurezza affermare che si contano tre Soratte: il primo è quello che si vede, il secondo è quello che si sale e si scende, il terzo è quello dal quale si guarda. Del Soratte che si vede e subito si deve guardare ho già detto qualcosa, ma non ancora tutto. Non ho detto, per esempio, che l’isolamento di questa montagna fa sì che la si possa osservare anche da molto lontano e da qualsiasi prospettiva. Cosicché il profilo del Soratte è ogni volta diverso e quasi inaspettato. Per fare un paragone fra due posti d’osservazione anche molto vicini fra loro, noi da Magliano vediamo il Soratte in tutta la sua massa, con le sue creste in fila, da Civita Castellana il Soratte è una specie di colossale virgola rovesciata verso il cielo. Credo che sia stato chiamato “Montagna sacra” non tanto per i sacerdoti di Apollo che lo abitavano, quanto per queste sue magie, per la sua stessa presenza, sorprendente e protettrice. Da qualsiasi punto lo si guardi, resta valida la descrizione che ne ha dato Byron nel suo Childe Harold’s pilgrimage:

…and from out the plain

heaves like a long-swept wave about the break,

and on the curl hangs pausing…

E fuori dal piano si solleva, come un’onda che si è lungamente accumulata per infrangersi e sospesa alla sua voluta si ferma.

IMG_0976Il Soratte che si sale o si scende è per la massima parte una selva, soprattutto di lecci, che non permette per lunghi tratti di vedere nulla che non sia il cammino lungo una strada fatta di cemento e sostenuta da una rete di ferro che qua e là affiora alla superficie. La strada è perfettamente carrozzabile, ma da quando è stata istituita la riserva naturale, una sbarra ne impedisce l’accesso alle auto che non siano dei pochi – custodi, frati, monache o che altro – che il Soratte lo abitano. La misura è saggia: se avessimo fatto la salita in macchina, la nostra soddisfazione sarebbe stata infinitamente minore.

Mancando il panorama, abbiamo guardato gli alberi, gli arbusti, talora, ma piuttosto occasionalmente, spiegati da appositi cartelli. Abbiamo visto un leccio straordinario, il cui tronco, se ci mettessimo dentro tutti i tronchi dei fratelli più giovani che abbiamo piantato a Coll’elmo, potrebbe contenerne ancora altri. La nostra attenzione è sempre catturata dalle felci, dai muschi, ma anche dalle pietre, qui quasi tutte bianche, fino al punto di ricordarmi l’Istria. L’attenzione più forte è stata, tuttavia, per gli umani. Più esattamente era una forma di attenzione che s’incrociava fra umani e fra cani, e anche fra le due specie mischiate.

Stefano Tomassini, Soratte, GuidaTeodoro – che ora non c’è più: e il racconto di questo viaggio è nel suo ricordo – aveva forte tendenza ad abbaiare ai cani molto più grandi di lui. Quelli della sua taglia o più piccoli, di norma li ignorava e, solo in caso di numerose rinnovate sollecitazioni, allora rispondeva. Teodoro andava spesso senza guinzaglio, considerato che non erano molti i gruppi che s’incontravano e che col guinzaglio non avrebbe potuto compiere le operazioni che, come ho accennato, gli davano una certa serenità di spirito e di corpo, come correre appresso ai legni lanciatigli da Adriana o segnare scrupolosamente tutto il territorio. Territorio nuovissimo, per giunta, che tanto più quindi andava segnato.

Quando ci trovavamo di fronte o percepivamo dietro la presenza di un gruppo umano o umano e canino insieme, allora per un po’ gli mettevamo di nuovo il guinzaglio. E così tutto è andato bene. Era bello il silenzio che ci accompagnava ed era bello il saluto che ci scambiavamo con le persone che già scendevano dalla cima oppure ci superavano nella salita. Appena si esce dalla città, appena si riguadagna un po’ di silenzio, gli uomini e le donne tornano a salutarsi. Siamo rimasti sorpresi dalla presenza di stranieri, lassù, in dicembre. A un certo punto una comitiva francese piena di cani e ragazzini ci ha quasi circondato. Adriana ha fatto paragoni, facendo considerazioni malevole sulla pigrizia degli italiani, che non amerebbero portare i figli a contatto con la natura. Lo dice sempre con un tono, come se i nostri figli fossero stati educati a Sparta.

Dopo poco più di un’ora e mezza, o un po’ meno di due ore – non ricordo esattamente, ma bisogna contarci anche un paio di fermate sulle panchine disposte in qualche radura – siamo arrivati alla sommità, preannunciata dal convento di Santa Maria delle Grazie e dal passaggio dalla strada di cemento a un sentiero pietroso, che avremmo percorso con qualche perplessità se l’avessimo incontrato all’inizio piuttosto che alla fine del cammino. Finalmente avevamo di fronte l’eremo di San Silvestro.

Stefano Tomassini, Soratte, GuidaMi stava davanti, nella sua dignitosa e incontrastata povertà di pietre, anche queste bianche, prese, mi pare, dalla stessa montagna. Ha davanti un torrione diruto e tuttavia ben piantato e ancora alto, che m’impediva di capire a prima vista se la chiesa fosse aperta o chiusa. Era aperta. Mi sono affacciato e ho avuto la visione, che mi sono affrettato a fotografare, di un raggio di luce che tagliava di traverso la piccola navata centrale velando un poco l’altare, rialzato su un presbiterio, leggiadro e candido come la neve sul Soratte quando ce la vedeva Orazio.

Stefano Tomassini, Soratte, GuidaSono entrato e due ragazze, anche loro leggiadre, si sono fermate nelle operazioni che stavano compiendo. Avevano nelle mani le scope e quel raggio di luce così netto, che avevo visto e continuavo a vedere, era dovuto, oltre che al sole inclinante già all’Occidente, alla polvere, forse di un anno o almeno di qualche mese, che loro avevano rimesso in circolo nell’aria nel tentativo lodevole di raccoglierla. Erano lì per preparare la chiesa alle cerimonie religiose del giorno dopo, 31 dicembre, festa di San Silvestro papa, quando i cittadini di Sant’Oreste salgono in processione al monte.

Ho detto alle ragazze che erano troppo gentili a fermarsi e che sarei stato felice che continuassero. Speravo forse che il raggio con altra polvere si sarebbe rafforzato. Ho fatto dentro di me l’elogio della polvere. Ripensavo a tutte le mattine che, nella vecchia casa di Roma, mi svegliavo in una festa di minime particelle bianche volteggianti nel sole. Le prendevo sempre come l’augurio di una buona giornata, anche se sapevo perfettamente che quella era la polvere che respiravamo giorno e notte.

Stefano Tomassini, Soratte, GuidaLe ragazze hanno autorizzato Adriana a introdurre Teodoro. E poco dopo anche un altro cane è entrato. Ho girato con cura la chiesa, ancora densa di madonne e santi vescovi. Non c’è un affresco che non abbia subìto il danno dei secoli. Dispiace, certo, che tutte queste immagini siano destinate piano piano a farsi polvere. Dispiace soprattutto lì dove emergono tratti e colori ancora così vivi che si direbbero quasi dipinti ieri. Poi, senza un motivo apparente, improvvisamente si spezzano in una zona di calcinaccio. Di una Madonna fatta così si vede il volto interrotto da una macchia grigia, ma il volto è bello, i capelli castano-chiari sono ben pettinati sotto il velo e la bocca della Madonna ancora sorride.

IMG_1011Resto stupefatto dalla gran quantità di graffiti che coprono i muri quasi dappertutto e particolarmente nella cripta che è sotto il presbiterio. Molti non hanno avuto ritegno di mettere firma e data sopra gli affreschi. Non mi spiego ancora perché, ma io, che pure sono stato ovviamente sempre contrario a quest’uso, qui mi sentirei quasi di perdonarlo. Come se fosse tutto bene quello che fa polvere.

Stefano Tomassini, Soratte, GuidaNella cripta scopro un graffito, che non è veramente tale. E’ una testa, un profilo, che lì per lì mi sembra di donna, ma poi, osservandolo ancora, vedo che potrebbe essere anche di ragazzo. E’ un disegno tratteggiato in un colore rosso che fa pensare alla sanguigna. E’ bellissimo. Non ne so niente, non sono capace di definirne il soggetto, né tanto meno di conoscerne l’autore. Può essere stato fatto un secolo fa, oppure due, oppure ieri. Non lo so e non voglio nemmeno saperlo. Mi pare, però, che senza questo scherzo l’eremo del buon Silvestro perderebbe qualcosa.

IMG_1016Siamo usciti infine. Il sole era ancora abbastanza alto da permetterci di scendere con tutta calma, senza paura di essere sorpresi nel bosco dal buio. Illuminava sotto di sé la fascia del Tirreno, laggiù, a Occidente. Ma noi ci siamo quasi subito affacciati a Nord-Est. Da destra a sinistra abbiamo visto Ponzano, Stimigliano, Poggio Sommavilla e un po’ dietro Collevecchio e di qua Magliano: tutta la Sabina e le montagne che portano a Rieti.