Emmanuel Macron è simpatico: basta guardarlo in faccia. Questo tuttavia non mi sembra un buon argomento politico. E’ dalla sua elezione, il 7 maggio, che cerco di spiegarmi, un giorno dietro l’altro, le ragioni della simpatia e anche della relativa, ancora un po’ riservata, fiducia che m’ispira. L’età non conta. E’ vero, con i suoi trentanove anni, mi pare proprio che sia il più giovane presidente della Repubblica Francese: Luigi Napoleone Bonaparte divenne presidente a quarant’anni e poi, come si sa, non rese un buon servizio alla Seconda Repubblica. D’altronde che l’età non conti molto per Macron si evince facilmente dal suo stesso matrimonio.

La prima ragione politica della simpatia sta indubbiamente nel fatto che ha vinto il ballottaggio con Marine Le Pen, evitando alla Francia e all’Europa un salto indietro incompatibile non solo con le esigenze d’oggi ma perfino col Secolo dei lumi che della Francia attuale resta il fondamento. Si può certo osservare che chiunque altro al suo posto avrebbe facilmente vinto quel duello: se i repubblicani, per esempio, avessero scelto Juppé invece che Fillon alle loro primarie, oggi l’ottimo Alain Juppé sarebbe il presidente. Primarie: non riesco a trovarne una che funzioni, neanche e tanto meno negli Stati Uniti d’America. In ogni modo l’avversario della Le Pen è stato Macron, e Macron ha vinto: di questo, prima di tutto, va ringraziato.

Poi, che altro è successo? La sera del 7 maggio, davanti alla piramide del Louvre, il presidente eletto ha tenuto un discorso che in qualche parte mi ha entusiasmato. Soprattutto in una, quando ha detto:

“Questa sera, non ci sono che le francesi e i francesi, il popolo di Francia riunito, e ciò che voi rappresentate, questa sera, qui, al Louvre, è un fervore, un entusiasmo, è l’energia del popolo di Francia. E questo luogo in cui ci ritroviamo è percorso dalla nostra storia, dall’Ancien Régime alla liberazione di Parigi, dalla Rivoluzione francese all’audacia di questa Piramide. E’ il luogo di tutti i francesi, di tutte le francesi. Questo luogo è quello della Francia, che il mondo guarda, perché stasera è l’Europa, è il mondo che ci guarda.

L’Europa e il mondo attendono che noi difendiamo dappertutto lo spirito dei lumi minacciato in tanti luoghi. Essi attendono che dappertutto noi difendiamo le libertà, che noi proteggiamo gli oppressi. Attendono che noi portiamo una nuova speranza, un nuovo umanesimo, quello di un mondo più sicuro, di un mondo di libertà difese, d’un mondo di crescita, di maggiore giustizia, di più ecologia. Attendono che noi siamo finalmente noi!”.

La verità è che sono un francofilo inguaribile, che amo la Francia e che anch’io sono fra quelli che si aspettano tutte le cose che promette Macron. La differenza, se è una differenza, è che me le aspetto sempre anche dall’Italia. Il discorso di quella sera, al Carrousel du Louvre, mi ha, un attimo dopo che era pronunciato, costretto a fare i soliti confronti che per me, da molti anni, sono quasi di rito. Che cos’ha la Francia più dell’Italia? Un ruolo internazionale più largo, più forte e consolidato di quello che ha l’Italia, certo. Però, questa era solo la base, direi quasi la ragione sociale, delle parole del presidente francese appena eletto. A consentirgli di pronunciarle c’era un fondamento più profondo, che era psicologico, di quella psicologia nazionale che hanno le nazioni più evolute, e quindi anche e soprattutto un fondamento culturale. In poche parole Emmanuel Macron e la grande maggioranza dei francesi conservano un concetto della loro Grande Nation che è altissimo, com’è giusto che sia, nonostante la crisi economica e sociale e politica che ha colpito anche loro.

E’ quando faccio questo confronto che provo un po’ di pena per il mio paese, per una nazione che non considero – e non è – meno evoluta della francese. Per quasi tutto il XIX Secolo l’Italia, l’Italia del Risorgimento, è stata un faro per l’Europa e faceva più luce di quella che poteva spargere intorno il Secondo Impero di Luigi Napoleone: perché Parigi era il potere, Torino, Milano, Roma, Venezia, Napoli erano la speranza. Ancora nel secolo scorso, che per la metà ho vissuto anch’io, l’Italia, uscita dal fascismo, è stata agli occhi di molti europei un laboratorio politico: basta ricordarsi per esempio dei primi riusciti esperimenti di autonomismo regionale, che alcuni ingenui o disonesti accennano oggi a voler rimettere in discussione. L’Italia non è per l’Europa meno della Francia: c’è stato Mazzini molto prima di Spinelli. Il difetto non è nell’eredità, è nella capacità di conservarla. Il difetto è la mancanza di memoria.

Un poco invidio dei francesi il paradosso che provo così a riassumere: sono i primi repubblicani e insieme gli ultimi monarchici. Maurice Duverger definiva appunto la Quinta Repubblica La monarchie républicaine. Non invidio le istituzioni della Quinta Repubblica. Invidio il concetto. Domenica scorsa, 14 maggio, non ho potuto vedere in diretta l’insediamento di Macron all’Eliseo: ho guardato poi gli spezzoni che ho trovato sul web. E per quanto fossero spezzoni, mi sono reso conto d’un fatto: il giovane presidente ci ha messo un secolo ad attraversare il cortile, mentre il vecchio presidente Hollande lo attendeva in cima alla scalinata. Il giovanissimo Macron si è forzato ad andare piano, come aveva fatto sette giorni prima al Carrousel, e come probabilmente faceva Luigi XIV a passeggio per il parco di Versailles. Sì, il presidente francese è un monarca, molto più di quanto lo sia Elisabetta II nel Regno Unito.

Da lui, da Emmanuel Macron, dipende adesso larga parte del destino che attende la Francia. Non so se sia un bene, o un male – preferisco la Repubblica parlamentare – in ogni modo è così. Questa settimana ha nominato il suo primo ministro e due giorni dopo i ministri e segretari di Stato. L’insieme è quello che ci si aspettava: perfetta parità di uomini e di donne. Più difficile, certo, ma ugualmente equilibrata la miscela delle origini politiche dei ministri: un po’ da sinistra, un po’ da destra, spicca la presenza del centro e la maggioranza relativa del dicastero è fatta di tecnici. Com’era scritto, si potrebbe dire.

Mi rimangono solo poche osservazioni da fare, sempre a proposito di confronti fra Parigi e Roma. Qui non hanno ancora finito di dire male dei governi cosiddetti dei tecnici – ce l’hanno soprattutto con Monti, ma anche con Letta – a Parigi la rivoluzione di Macron porta al governo i tecnici. Qui nessuno piange più sulle rottamazioni consumate, a Parigi non si rottama: un paio di ministri di Stato, e dei più influenti, Collomb all’interno e Le Drian agli esteri, sono alle soglie dei settanta e hanno un lungo passato politico alle spalle. Mi dicono che “en marche” e “in cammino” significano la stessa cosa  e i democratici nostrani sembrano molto orgogliosi di questo: osservo solo che Macron cammina molto meglio. Quanto al futuro, è un mistero come sempre: ma in Francia sembra un mistero allegro.