Quando ero ragazzino, negli anni cinquanta, o forse nei primi, primissimi sessanta, una o due volte, direi non di più, i miei mi hanno portato a Pesaro. Deve essere stato quando ho Stefano Tomassini Le Marchevisto anche San Marino. Poi, per decenni, non ci sono più tornato. Così, per tanto tempo, il rapporto che avevo con Pesaro è stato un po’ come quello che ancora ho con il Paradiso: mi è stato insegnato che c’è ma non lo tenevo in troppa considerazione e non ci facevo grande affidamento. Per la verità al Paradiso, o a quello che rappresenta, ho creduto anche intensamente – a quattordici anni volevo farmi prete – e non posso nemmeno dire che oggi non ci creda affatto. Mantengo, se così posso dire, un ragionevole dubbio, che però non mi assilla. Credo di credere in Dio, anche se non sempre lo capisco e neppure lo pretendo.

Quanto a Pesaro, pur essendoci stato e avendola vista e toccata come un San Tommaso, ho fatto come se non ci fosse, l’ho messa fra parentesi, pronto a riprenderla in considerazione Stefano Tomassiniun giorno, ma senza fretta. I ricordi di quelle prime visite sono ormai lontanissimi e confusi. Ricordo per esempio di aver mangiato il pesce “con la mollica del pane”: non so naturalmente dire quale fosse il ristorante e tanto meno se esista ancora. Mi è sempre rimasta dentro però la sorpresa di quella scoperta: che a Pesaro il pane grattato si chiamava “mollica del pane”. E io ero lì a pensare e ancora penso che non sono la stessa cosa e che il pane grattato è fatto semmai con la crosta e che la mollica è proprio l’altra parte del pane. Devo aver chiesto spiegazioni a mia madre, che, non essendo del posto, non me le poté dare. Non credo di aver chiesto a mio padre, che, lui sì, era pesarese. Devo aver pensato forse che non sapeva nulla di cucina, oppure che era venuto via da troppo tempo.

Una certa vocazione a emigrare i Tomassini l’avevano già da prima. Nel sito di Ellis Island ho trovato il nome di mio nonno Angelo, arrivato a New York il 27 marzo del 1907 assieme al fratello maggiore Nazzareno. Si erano imbarcati a Genova sulla motonave Campania. Angelo aveva ventisette anni, Nazzareno ventinove. Il registro di sbarco dice che non sapevano scrivere né leggere: ma si riferiva all’inglese oppure anche all’italiano? Non credo che mio nonno fosse analfabeta, ma è possibile. Il fitto questionario dell’immigrazione rispondeva negativamente alle domande se i due fratelli fossero stati in prigione o avessero guai con la giustizia (casella 17), se per caso fossero poligami (18), oppure anarchici (19) e ancora se avessero un contratto di lavoro negli Stati Uniti (casella 20). Non avevano contratto ed erano arrivati per cercarlo: questo è ovvio. Non avevano una lira o quasi: per l’esattezza Nazzareno era in possesso di dieci dollari e Angelo di dodici. Erano entrambi sposati, ma ciascuno con una donna sola, che era rimasta a casa, a Pesaro. La moglie di mio nonno era Elvira, che faceva Guerra di cognome. Gli aveva già dato tre figli: Giuseppe – poi sempre chiamato Peppe – Anna e Nando. Di Nazzareno non so quasi nulla di più di quello che ho trovato nel sito di Ellis Island: ricordo solo che una volta qualcuno – una zia o forse mia madre, che si divertiva a raccontare certe storie strane di famiglia, anche di quella acquisita – mi ha detto che era tanto più alto del fratello e soprattutto aveva piedi così grandi che, quando morì, si fece molta fatica a farlo entrare in una bara.

Per la verità non so molto neppure di Angelo e di Elvira. E’ pura matematica o fisica: quanto più le famiglie sono numerose, tanto più i rapporti tendono a diradarsi e con quelli la memoria stessa dei parenti. Nel caso mio tutto correva a vantaggio della famiglia materna, fatta in sostanza di sole tre persone, madre, padre e figlia. Mio padre, invece, era il settimo di ben otto figli: Peppe, Anna, Nando, Bruno, Dina, Vittorio, Quinto e Maria. E non sono neppure sicuro che questo sia l’ordine esatto nel quale Elvira li ha messi al mondo.

Non sono stato capace di trovare nel sito di Ellis Island il secondo ingresso di Angelo negli Stati Uniti. Mi è stato sempre detto che c’era andato due volte. Ci scherzavano anche un po’ sopra, perché i figli sono venuti a gruppi: tre dal 1903 al 1906, dal ’10 al ’13, altri tre e infine mio padre nel ’20 e la sorella Maria nel ’22. Così dicevano che faceva tre figli, andava in America, tornava e ne faceva altri tre, ripartiva, tornava, e altri due figli. Aveva un soprannome: barcaról. Che con ogni evidenza significa barcaiolo. Mestiere che non ha mai praticato. M’è venuto in mente che questa qualifica potesse derivargli da quell’andare e venire con l’America, come se il viaggio si potesse fare in barca, ma è forse più probabile che fosse stato il padre oppure il nonno a fare il barcaiolo, magari a Fano, dove mio nonno era nato. Si sa come si producono i soprannomi: prendono spunto da una caratteristica, una qualità o più volentieri un difetto di una persona e subito ne viene dato carico a tutti i parenti. Però barcaról gli si addiceva proprio, gli stava bene. Quella o chiusa o forse circonflessa – barcarôl – gli dava un che di rustico, una specie di ruggito appena spento, oppure non ancora del tutto taciuto. Io l’ho conosciuto quando doveva aver già da un pezzo passato i settanta. Andavamo a trovare i nonni la domenica mattina. Per un periodo sono stati da zia Anna, per un altro da zia Maria. La casa più vecchia che vagamente ricordo era ai cosiddetti Villini, poi si sono spostati appresso alle figlie, ma sempre in quella parte di Roma che è fra la Prenestina e la Casilina. Ero piccolo e mi sembrava lontano. “Saluta nonno” mi diceva mia madre e zia Anna o zia Maria spiegava a lui: “E’ Stefano, il figlio di Quinto”. Io mi avvicinavo a quella faccia di uomo anziano, sempre un po’ umida sotto il naso e sempre un po’ ispida sulle guance. Ci salutavamo. Piano piano, senza fretta, crescevo: lui ancora invecchiava. Alla fine della cerimonia domenicale, alla quale da un po’ di tempo partecipava anche Massimo, mio fratello, mi trovavo a chiedermi quanto gusto potesse provare mio nonno a salutare tutti quei nipoti.

Nonna Elvira me la ricordo piccola e, all’apparenza, sempre più fragile. Le ultime volte che la vidi non si alzava più dal letto. Ma sembrava sempre un po’ più presente del marito. Adesso mi viene in mente che lei, dopo la morte del marito, è stata anche da zia Dina, che abitava da tutt’altra parte, alla Garbatella. Potrei dire che tutte le mie Marche erano allora quei quartieri di Roma lontani dal mio. Oppure erano nelle parlate di alcuni parenti, come zio Romeo, il marito di Maria, di zia Gina, la moglie di Nando, e soprattutto di zia Iside, la vedova di Bruno. Una volta, quando avevo già una ventina d’anni, nella nostra casa al mare, a Torvajanica, si aprì una bella disputa che vide contrapposte da una parte zia Iside e dall’altra mia madre e zia Mercede, la moglie di zio Vittorio. Zia Iside aveva più o meno sostenuto che i pesaresi sono settentrionali sia in termini relativi, a Roma, alla Sabina e alla Maremma – zia Mercede era di Gavorrano – sia in termini assoluti. Non lo aveva detto proprio così, ma insomma questo era il senso. Zia Mercede s’era fatta delle gran risate, convinta com’era e come è ogni toscano che non ci sia nulla più in alto della loro terra, e mia madre aveva preso a canzonare e Iside e Vittorio e Quinto, venuti subito in soccorso della coraggiosa cognata.

Ora, a parte il fatto che, consultando una qualsiasi carta d’Italia, si vede facilmente come Pesaro sia molto più a Nord di Roma, di Magliano Sabina e di Gavorrano, e un poco perfino di Firenze, a favore della tesi sostenuta da zia Iside interviene soprattutto l’argomento della lingua, che ha portato fino in bocca ai pesaresi un dialetto gallo-italico parente strettissimo, quasi fratello gemello, del romagnolo. A questa faccenda dei dialetti credo sia legata in gran parte una più antica fisima pesarese, che è la distinzione fra Marche sedicenti pulite e Marche cosiddette sporche. Anche mio padre ogni tanto ci teneva a precisare: “Delle Marche pulite, di Pesaro” diceva. Le divisioni, le distinzioni meglio, erano e sono pane quotidiano dei marchigiani. “Una Marca, più Marche” scriveva Luigi Carlo Farini. E in effetti la storia aveva prodotto nel tempo una Marca di Camerino, una di Fermo, una di Ancona, e poi una serie di comuni e signorie e piccoli stati, dei quali il più illustre è stato certamente il Ducato di Urbino. Quanto alla geografia, anche lei, ha fatto quel che ha potuto per spartire i marchigiani fra le diverse vallate che dall’Appennino scendono al mare. Alla fine però io credo che tutto questo insistere, che ancora si fa, sulle distinzioni e divisioni sia sempre stato piuttosto esagerato. E’ vero, ancora mezzo secolo fa, forse anche meno, c’erano altre regioni in Italia che si usava chiamare al plurale: c’erano gli Abruzzi e le Puglie e talvolta, detto magari solo dai calabresi, le Calabrie. Oggi di regioni ufficialmente plurali restano solo le Marche. E’ segno, questo, di un destino ineluttabile?

Prima di andare avanti nel discorso, ci sarebbe magari da chiedersi quanta pluralità contengano regioni sicurissime di sé, come per esempio la Toscana. Ci si faccia un giro per Pisa o per Livorno, si leggano le scritte sui muri che non è certo difficile trovare e sono compendiabili nei motti più brevi e insistiti – “Livorno merda” e “Pisa merda” – per capire che qualche variazione c’è anche nell’esser toscani. Non parliamo del Lazio, dove alle rabbie campanilistiche più spesso si sostituisce l’ignoranza semplice dell’altro e dell’insieme, che una volta, per volontà archeologica di Mussolini, ha preso il nome di Lazio. Ma poi, ancora, emiliani e romagnoli sono per caso diventati tutti emiliano-romagnoli? Tutti conviviamo abbastanza pacificamente con queste divisioni e, quando ci sono, con le relative nevrosi. Perché nelle Marche ci s’insiste tanto?

“Una Marca, più Marche” diceva Farini e lo diceva con quel senso di disprezzo che poteva mettere a fare l’inventario del grande magazzino d’antiquariato che gli pareva lo Stato pontificio. La parola marca viene dal tedesco mark, che significa paese o provincia di confine. Le marche segnavano dunque i confini del Sacro romano impero: era stato, per esempio, e in qualche modo è ancora il caso della Marca di Brandeburgo. La parola Marche, maiuscola e plurale, e riferita alla regione italiana, viene impiegata ufficialmente il 9 giugno 1815, quando Metternich, Talleyrand e molti altri rappresentanti delle potenze europee firmano l’atto finale del Congresso di Vienna. La troviamo al primo comma dell’articolo 103, dove si parla della reintegrazione dello Stato pontificio nei suoi possessi:

Le Marche, con Camerino e le loro dipendenze, così come il Ducato di Benevento e il Principato di Pontecorvo, sono restituiti alla Santa Sede.

Da allora – e sono ormai duecento anni quasi esatti – la definizione è rimasta stabile. L’iscrizione di quel nome in un documento ufficiale – e importante come l’atto finale del Congresso di Vienna – segna il compimento di un processo che attraverso i secoli ha fissato un’identità culturale e politica. Non sarà inutile notare un paio di altri caratteri di questo passaggio. La pluralità è appunto nel nome: ciò di cui si parla spesso come di una difficoltà, di un limite o di una problematica sempre aperta, può essere anche considerato al contrario. Vale a dire che può essere visto come una ragione di ricchezza o di fertilità, come insomma un principio attivo di evoluzione e magari di progresso. Non solo: l’associazione di diverse Marche, che è nel nome, quasi sottintende l’idea di un patto, un’idea di libertà. Questo è forse fare troppo illuminati i congressisti di Vienna, ma insomma a volte anche la bontà di un nome, la sua aderenza alla storia, può far bene alla politica e alla storia successiva. Ma c’è ancora da notare il secondo carattere del passaggio: non mi pare un caso che “Le Marche” aprano l’articolo 103 dell’atto finale di Vienna. Quella dizione e quella regione, “Le Marche”, rappresentano la creatura più certa dello Stato pontificio. Dico “creatura più certa”, come si dice di un figlio, del suo concepimento e della nascita. I longobardi, i tedeschi di diverse generazioni, possono aver inventato questa o quella marca: le Marche, maiuscole, plurali e unite, le Marche come identità comune dei marchigiani, le ha fatte lo Stato pontificio. Questo potrebbe dispiacere a Farini, potrà dispiacere a qualche mio amico repubblicano, se ancora ce n’è, ma insomma è storia.

Ora, io non pretendo che queste considerazioni siano di consolazione ai marchigiani. Li avverto però che, piano piano, comincio a intuire il loro gioco: che è, se capisco, quello di distinguersi l’uno dall’altro nella speranza che la varietà sia tanto grande da rappresentare un mondo. Così fingono incomprensioni linguistiche e battaglie di campanile. Quale politico cattivo saprà inventare cattiveria più terribile di quella di abolire la provincia di Fermo appena fatta? Quanti pesaresi considerano con dispetto la nuova sigla della provincia, PU (Pesaro e Urbino), rimpiangendo la vecchia PS, così chiara e precisa per loro? Il problema vero è sempre stato un altro, anche questo iscritto nel nome: singolare o plurale, marca o Marche, sempre si parla di una terra di confine, per cui l’illusione che dicevo, che quella terra rappresenti da sola, nella sua varietà, il mondo, è perennemente destinata a farsi delusione.

Confine di che? verso cosa? ci si può chiedere. E’ ovvio che non ci si può riferire ai confini di Stato che le Marche avevano fino al 1859-60 con il Granducato di Toscana o con il Regno Stefano Tomassinidelle Due Sicilie, e che ancora oggi si leggono più o meno uguali nella separazione dalla Toscana e dall’Abruzzo. Né si può tornare indietro fino ai longobardi e ai bizantini. E’ stato dunque inventato un nome per una funzione, un ruolo che da tempo non esistono più? E il nome ha perso significato? Ma i nomi spesso vivono più a lungo del loro significato originario e, se ben trovati, ne prendono di nuovi, seppure non del tutto estranei all’origine.

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Confine verso cosa, dunque? Vi ricordate l’Adriatico? Sapete come è diverso dal Tirreno: quanto quello là è verde e questo qua è azzurro. Ancora nell’Ottocento molti continuavano a chiamarlo Golfo di Venezia, per indicare certo la grandezza di una potenza già decaduta, ma anche la chiusura, la ristrettezza di quello specchio d’acqua, la vicinanza delle due sponde. E tuttavia sapete anche che l’altra sponda è l’Oriente. Sarà proprio un caso che il grande missionario della Cina, Matteo Ricci, fosse di Macerata?

I nostri mari, in fondo, sono tutti piccoli. Ma l’Adriatico è più stretto e basta passeggiare una mezz’ora sulla battigia di quella lunga spiaggia piana, per scoprirsi improvvisamente meravigliati che non si veda all’orizzonte in faccia alle colline marchigiane l’altra costa, quella alta e intricata della Dalmazia. L’Adriatico è un mare in salita – in discesa, naturale, se parliamo del fondo – da verde, spesso soltanto grigio, diventa blu a mano a mano che sale di là, verso Nord-Est. Così provoca un’illusione, un’altra: che questo mare, sia tutto il mare possibile, ovvero che tutto il mare possibile sia vicino e praticabile.IMG_1070

Mi chiedo se sia stata questa l’illusione anche di nonno Angelo, che due volte ci è caduto. Poi è tornato, come ho detto, e ha fatto altri due figli con mia nonna, prima di venire a Roma, per fortuna mia e di mio fratello, che altrimenti non ne parleremmo, perché non avremmo neanche bocca per parlarne. In quegli anni lì, il mezzo secolo che corre dal 1875 al 1925, sono stati quasi mezzo milione i marchigiani espatriati. Crisi economica, problema di saturazione del territorio, un capitolo importante nel librone dell’emigrazione italiana nel mondo: ma solo questo? Io un dubbio ce l’ho. Lasciamo stare mio nonno, il quale tuttavia è poi emigrato con moglie e figli verso Roma. Lasciamo stare tutti quelli che hanno fatto la sua stessa strada o una simile: Flaminia o Salaria, in buona sostanza. Lascio stare anche mio zio, Peppe, che fu il primo a scendere a Roma e poi si tirò appresso tutta la famiglia. Grazie anche a lui.

Ma prima? anche quando non c’era tutta quella crisi del primo Novecento? Conosciamo il nome di qualche marchigiano importante, famoso, fortunato, che abbia trovato a casa fortuna e fama? Questo può capitare oggi a un Diego Della Valle oppure a un Valentino Stefano TomassiniRossi, per altro entrambi gran giramondo per mestiere. Agli altri, quelli di prima, no. Musicisti, architetti, pittori, letterati, scienziati, tutti, ch’io mi ricordi, sono partiti. Poteva Rossini avere il successo che ha avuto, continuando a suonare o a cantare fra Lugo, Pesaro e Senigallia? E Pergolesi, che visse solo ventisei anni, se lo ricorderebbe qualcuno se fosse sempre e solo vissuto a Jesi? Raffaello trovò a Roma – dove se no? – le stanze nuove da affrescare. I più dunque sono dovuti partire. Ma è sicuro che non ne avessero anche un po’ voglia? Uno, certamente, lo ha voluto.

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea

Tornare ancor per uso a contemplarvi

Sul paterno giardino scintillanti,

E ragionar con voi dalle finestre

Di questo albergo ove abitai fanciullo,

E delle gioie mie vidi la fine.

Sta finendo l’estate del 1829. Da alcuni mesi Giacomo Leopardi è tornato a Recanati, il “natio borgo selvaggio” dal quale era riuscito ad allontanarsi sette anni prima. Non sa quando potrà ripartire.

Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,

Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza

Tra lo stuol de’ malevoli divengo:

Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

E sprezzator degli uomini mi rendo,

Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola

Il caro tempo giovanil; più caro che la pura

Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo

Senza un diletto, inutilmente, in questo

Soggiorno disumano, intra gli affanni,

O dell’arida vita unico fiore.

 

Giacomo ha trentun anni e sente che “il caro tempo giovanil” gli è stato già rubato da Recanati e dal palazzo paterno. In quella stessa poesia, Le ricordanze, pochi versi prima, ha detto:

Che dolci sogni mi spirò la vista

Di quel lontano mar, quei monti azzurri,

Che di qua scopro, e che varcare un giorno

Io mi pensava, arcani mondi, arcana

Felicità fingendo al viver mio!

 

 

Il mare, i monti e al di là di quelli l’illusione di “arcani mondi, arcana felicità”. Quattro anni prima, il 23 novembre 1825, scriveva da Bologna al fratello Carlo:

Del resto io sospiro ogni giorno più di rivedere voi altri miei cari, e in certe passeggiate solitarie che vo facendo per queste campagne bellissime, non cerco altro che rimembranze di Recanati.

 

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Se questa terra è un confine, allora è il più complicato confine del mondo. Sembra essere fra la vita e il suo ricordo, fra l’esperienza e il desiderio, fra l’intenzione e l’atto di vivere. Sarà che tutto quello che mi è stato detto sulle Marche, quand’ero piccolo, era coniugato al Stefano Tomassinipassato. Sarà anche che è fatica tornarci e l’andare e il venire è sempre in una condizione di lontananza. Giorni fa ho imposto a me e a mia moglie un’altra visita a Pesaro. Volevo vedere – non c’ero ancora mai stato – la casa natale di quell’altro grande emigrante, Rossini. Il tempo era il peggiore per mettersi in viaggio: le previsioni promettevano nevicate fino sulla costa. Abbiamo sì incontrato la neve, ma lì dove doveva stare, sull’Appennino, fra Sigillo e Scheggia. Più tardi, mentre passeggiavamo per il centro di Pesaro in attesa che la Casa di Rossini riaprisse i battenti, abbiamo visto scendere quattro o cinque fiocchi di neve, ma scendevano nel sole. Non bisogna mai esagerare nulla. Questo vale per le previsioni meteorologiche come per la psicologia dei popoli.