Non so ancora il titolo. Ne ho proposti forse una decina.

Roma, l’Italia, la Francia e Garibaldi mi piacerebbe, ma riconosco che è un po’ troppo lungo. Roma 1870, che era il titolo provvisorio, ha il difetto di proiettare tutta la vicenda sull’avvenimento finale, che è solo formalmente, retoricamente anche, il compimento del Risorgimento a Roma. Sarebbe più giusto probabilmente Roma fino al 1870: un po’ minimalista, certo, e per questo forse mi attrae, ma ne sarebbero attratti anche i possibili lettori? La storia, dal 1862 al 1870, è lunga e complicata: sarà infatti, almeno per adesso, il mio libro più lungo. Le date più importanti sono tre: il 1862, quando Garibaldi, che vorrebbe andare a Roma, viene fermato dalle truppe italiane ad Aspromonte, il 1867, quando fallisce un tentativo d’insurrezione cominciato con l’attentato alla Caserma Serristori e poi Garibaldi viene sconfitto a Mentana da pontifici e francesi, quanto al 1870, la presa di Porta Pia è solo la terza data, che non si capisce bene, se non si considerano le altre. In questa prospettiva il titolo potrebbe anche essere Le guerre romane, oppure La guerra di Roma, a patto che vi si riesca a leggere anche quel tanto d’ironia che è dovuto al confronto delle altre guerre che si combattono in quegli anni, in particolare la guerra nel Mezzogiorno d’Italia e la guerra franco-prussiana, con il crollo del Secondo Impero francese, che è la condizione, non unica ma necessaria, dell’arrivo degli italiani a Roma. Non è insomma una storia solo romana quella che racconto. A Roma comincia, in ogni modo, e a Roma finisce, o piuttosto s’interrompe per magari poi continuare. Ho voluto quindi iniziare e anche finire questo libro con le disavventure di un cittadino romano, Lodovico Fausti, amico personale e gentiluomo del seguito del cardinale Giacomo Antonelli, che nel febbraio del 1863 fu arrestato dalla gendarmeria pontificia con l’accusa di aver congiurato contro il governo del papa. Passò poi alcuni anni in carcere. Questo che propongo di seguito è l’inizio della storia, oltre che il primo capitolo del mio nuovo libro:

Era domenica 22 febbraio 1863, la prima domenica di Quaresima. Roma era tranquilla: di quella tranquillità, beninteso, che si può percepire anche da una pentola in cui l’acqua continua a bollire. Davanti alla chiesa di San Carlo al Corso il passeggio era quello normale di una domenica mattina d’inverno. Si era un po’ più animato verso mezzogiorno, quando alcune centinaia di persone – lombardi di passaggio oppure residenti a Roma, altri forestieri, italiani o propriamente stranieri che fossero, ma soprattutto parrocchiani di Campo Marzio – si avvicinavano al sagrato per poi assistere alla messa grande. Fra quei parrocchiani c’era il cavalier Lodovico Fausti, cinquantasette anni, persona stimatissima in città e fuori: nell’urbe e nell’orbe, si potrebbe dire.

La tranquillità che dico non è solo e neppure tanto quella sorta di pacatezza, quasi di riposo, che nel calendario cristiano dell’Occidente, allora, certo, molto più che oggi, poteva far seguito al clamore, alle feste, gli scherzi, i lazzi, le pazzie e i bagordi del carnevale. Era molto decaduto il carnevale romano: Andersen e Dickens non lo avrebbero riconosciuto, se fossero tornati. Questo per la naturale evoluzione dei costumi, certo, ma anche – e molto più – perché i festeggiamenti carnevaleschi erano da qualche anno divenuti il tema – e il campo anche – d’una disputa politica. Così era stato anche quell’anno. Il 4 febbraio il Comitato nazionale romano, l’organo clandestino quanto a tutti noto che raccoglieva i fautori dell’unione di Roma al Regno d’Italia, aveva fatto uscire il solito proclama che invitava i concittadini a disertare tutti i luoghi e le occasioni previsti dal governo pontificio per le feste del carnevale. Va forse tenuto presente anche che per quel poco di turismo che poteva ancora durare a Roma e per una certa tradizione che la città aveva avuto in passato, l’occasione poteva valere economicamente quasi quanto le feste di Natale e di Pasqua.

Quel proclama, che il Comitato nazionale aveva fatto stampare in circa quattromila copie, diceva:

Romani! Chi è che vi chiama e vi spinge oggi con malizioso artifizio ai tripudii carnevaleschi e vi permette anche gli spettacoli teatrali nel Venerdì? E’ il prete… E’ quel prete stesso, che facendo ogni mercato del suo sagro ministero, vi prepara domani le nenie di Geremia, e le ceneri della penitenza! Inverecondo connubio della Tiara allo Scettro.
Ma perché tali vergogne? Per affascinare la Diplomazia e l’Orbe cattolico, e per dare loro ad intendere che Roma si rallegra e gode delle catene, che la prostituiscono e che volenterosa si aggioga al clericale dominio, rinunciando ai più nobili sentimenti di libertà, di patria, di nazione.
Romani! Mentre Voi ammirate dell’eroica Venezia il grave e mesto contegno in faccia allo straniero oppressore, mentre Voi palpitate al martirio dei vostri fratelli detenuti, vittime innocenti dell’ira Sacerdotale; mentre Voi accorrete a sollevare dalle sventure i miseri danneggiati dal brigantaggio, Voi vedete il Prete, che, non solo ardisce frammezzo a tante mestizie invitarvi ai pubblici divertimenti, ma osa rendervi strumento della sua infame politica, e vuò farvi ludibrio all’Italia tutta.
Nò Romani! Voi, come nei passati anni, vi asterrete dal Corso e dai festini, respingendo fieramente le improntitudini e le insidie del crollante Governo papale. L’evirata turba patrizia, il prezzolato servidorame, come la ciurma borbonica e la sfrenata sbirraglia siano di simili sollazzi spettatori e spettacolo, non già il Popolo romano, il quale mai smentì la sua storia, e sempre si mantenne all’altezza dei suoi destini. Roma offrirà agli infelici fratelli quel danaro che altri profonderà al proprio disonore. Roma aggiungerà un’altra prova per non demeritare il nome glorioso di Capitale dell’Italia.
Viva l’Italia, Viva il Re.

Seppure non splendido esempio di prosa politica, il proclama del 4 febbraio è utile come scenario della situazione romana e italiana al momento in cui comincia, ovvero continua, la nostra storia. Si è costituito il Regno d’Italia, ma ne restano ancora fuori Venezia e Roma. Al Sud continua la guerra al brigantaggio e cioè lo scontro, molto sanguinoso, fra le truppe regolari e le bande, un po’ di volontari e un po’ di contadini, braccianti e briganti veri e propri, che vorrebbero riportare sul trono di Napoli Francesco II. Questi, con la sua “ciurma borbonica”, è a Roma, a Palazzo Farnese: e un po’ di logica vuole che sia di qua che si tiri almeno una parte delle fila di quella guerra. Quanto alla “evirata turba patrizia” e al “prezzolato servidorame” l’estensore del proclama era un po’ troppo pessimista: gran parte della nobiltà romana si astenne dall’andare in carrozza per il Corso nei giorni del carnevale e i festini nei teatri ebbero incassi irrisori. La “sbirraglia” certamente c’era, ma un po’ doveva anche occuparsi delle passeggiate alternative dei romani che non volevano fare carnevale o piuttosto preferivano farlo patriottico.

Il 12 febbraio, giovedi grasso, una di queste manifestazioni si era tenuta al Pincio e tre gendarmi pontifici si erano presi di petto con un gruppo di giovani davanti a Villa Medici: “baruffa che terminò con la ritirata di ambe le parti – avrebbe scritto il 19 febbraio il giornale liberale di Napoli Il pungolo – e che non fu neppure avvertita dalla gran folla di cittadini d’ogni grado che nelle ore pomeridiane di quel giorno trasse a piedi o in carrozza al Monte Pincio”. La stessa corrispondenza diceva che i romani in quei giorni cantavano:

Al Corso, bello, non ci voglio andare
Ci vanno i birri insieme ai barbacani,
Ci vanno i vili che si fan pagare
E lo sciame de’ pazzi ultramontani.
Invece al Pincio ci dobbiam portare
Ove vedremo facce d’Italiani.

I “barbacani” erano i soldati dell’esercito pontificio, così chiamati dal popolo forse per indicare che in guerra non sarebbero stati mai molto più attivi delle opere murarie di fortificazione. Lo “sciame de’ pazzi ultramontani”, quello è un po’ un problema: perché probabilmente si riferisce ai cattolici conservatori, reazionari o più semplicemente bigotti, in ogni modo fedelissimi del papa, che si contrapponevano in giro per l’Europa alle tendenze più nazionali – in Francia, per esempio, erano gli avversari del gallicanesimo – ma al tempo stesso, e poiché ho citato la Francia, non si può del tutto escludere, che il paroliere della canzone volesse anche o lasciasse intendere per “pazzi ultramontani” i francesi tout-court. In quel caso si parlava dei francesi in divisa, presenti a Roma in discreto anche se variabile numero dal 1849, da quando cioè Napoleone III, allora ancora Luigi Napoleone Bonaparte, presidente della Repubblica Francese, li aveva mandati a soffocare la Repubblica di Mazzini. C’è una terza possibile interpretazione, che in qualche modo le riassume tutte: i “pazzi ultramontani” sarebbero soprattutto i volontari che il pro-ministro pontificio delle armi, il belga Frédéric François Xavier de Mérode, aveva preso a raccogliere da tutta Europa più o meno da tre anni, senza mai smettere, ma senza neanche ottenerne grandi risultati.

Era una città complicata Roma, come forse non lo era mai stata: a parte, certo, il famoso sacco del 1527. Ma non è proprio il caso di andare così indietro. Continuava a essere il centro del mondo, ma ne pativa le conseguenze come mai le era successo: il governo del papa si reggeva sotto la protezione di quello che, almeno da qui, da Roma, appariva il padrone dell’Europa, Napoleone III, il quale al tempo stesso era il gran protettore del Regno d’Italia appena nato. In questa curiosa specie di triangolo borghese si sarebbero svolte le vicende di quel decennio.

Il carnevale non aveva dato occasione a incidenti maggiori di quello già segnalato. A meno di voler considerare incidenti gravi i copiosi spargimenti di polvere di euforbia che la sera di mercoledì 11 al Teatro Tordinona e la notte di venerdì 13 al Teatro Argentina avevano messo in fuga, in preda agli starnuti, i pochi volenterosi intervenuti ai veglioni. Ma anche questo faceva parte d’una certa tradizione carnevalesca: la differenza, probabilmente politica, era nella quantità di polvere impiegata. Molto più grave, va riconosciuto, era stato ciò che era avvenuto alle prime ore di domenica 15 febbraio: un incendio aveva distrutto il Teatro d’Alibert in via Margutta. Per quanto gli incendi dei teatri, per la facile infiammabilità dei materiali, fossero quasi all’ordine del giorno, i primi sopralluoghi e indagini avevano lasciato largo spazio all’ipotesi dolosa. Questo, grosso modo, era tutto e la settimana successiva, quella delle ceneri, era venuta via tranquilla. Serena no, non nella mente di Lodovico Fausti almeno.

Per arrivare in chiesa, anche a camminare piano, non aveva potuto metterci più che cinque minuti. Gli bastava scendere le scale della palazzina di sua proprietà, al numero civico 46 di via della fontanella di Borghese, girare per il Corso verso sinistra e, pochi passi ancora, era quasi subito sul sagrato di San Carlo dei Lombardi. Probabilmente ebbe qualcuno da salutare: ma non è detto, non è sicuro, perché da un po’ di tempo si era accorto che qualcuno dei suoi conoscenti – amici veri, forse, non ne aveva molti – qualcuno di quelli, insomma, che di solito, prima, ci tenevano ad andargli incontro e quasi a correre per salutarlo, aveva smesso di farlo e sembrava disposto a sorridergli o dargli la mano solo se proprio se lo trovava davanti e non poteva far finta di non averlo visto.

All’epistola il prete aveva letto la bella esortazione di San Paolo ai Corinzi che più o meno dice: “In tutte le cose mostriamoci come ministri di Dio, con molta pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle percosse, nelle carceri, nelle sedizioni, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni, con castità, scienza, longanimità, dolcezza, nello Spirito Santo…”. La lettura naturalmente era in latino e non tutti, certo, lo capivano: ma lui, Fausti, doveva conoscerlo, per mestiere, almeno quanto il prete. Gli erano suonati chiari nell’orecchio: “in tribulationibus… necessitatibus, angustiis, plagis, carceribus”. La parte più difficile era venuta dopo: non per la comprensione della lingua, bensì per la comprensione del mistero che l’apostolo a volte mette nelle proprie parole. “Per infamiam, et bonam famam” leggeva ancora il prete. Quel per indicava la situazione o lo strumento? “Attraverso l’infamia e la buona fama, come seduttori, eppure veraci, come ignoti, eppure conosciuti, come morenti, ed ecco che viviamo, come castigati, ma non mortificati, quasi tristi, ma pur sempre allegri, come pezzenti, ma pur sempre capaci di arricchire molti, quasi nulla tenenti e possessori di tutto”. La fama, la buona e la cattiva: non volendo, si era imbattuto in quella formidabile ipotesi di percorso. Se n’era subito ritratto.

Il vangelo era quello delle tentazioni di Cristo: e le tentazioni, si sa, basta evitarle. Non fece molta attenzione alla predica. Poi la messa andò avanti spedita fino alla benedizione. All’uscita si fermò ancora un poco sul sagrato: qualcuno si era forse deciso a salutarlo, qualcuno poi doveva, nonostante tutto, essere ancora ignaro delle nuvole che aveva sulla testa e in mente il cavalier Lodovico Fausti, spedizioniere apostolico, amico personale e gentiluomo di camera del cardinale Giacomo Antonelli.

Poco dopo, fra le teste dei parrocchiani che affollavano il sagrato, vide la carrozza della gendarmeria che era ferma proprio lì davanti alla chiesa. Vide anche che i gendarmi erano insolitamente numerosi. Non poté avere dubbi e, anche li avesse avuti, gli si sarebbero sciolti subito, perché un attimo dopo si accorse che un giovane ufficiale con un drappello stava salendo proprio nella sua direzione. Era il maggiore Luigi Eligi, come avrebbe poi saputo. Dunque era vero: lo stavano arrestando.