Era l’anno 1263. Un prete di nome Pietro, tedesco o boemo – all’epoca non doveva fare grande differenza, non tale almeno che da queste parti potesse essere facilmente colta – scendeva in pellegrinaggio verso Roma. Per correre alla capitale del mondo non era il periodo ideale: neanche il papa riusciva a starci. Jacques Pantaléon, che era stato eletto a Viterbo nell’agosto del 1261 e aveva preso il nome di Urbano IV, non sarebbe mai riuscito a mettervi piede: delle due fazioni che si contendevano la città una, la ghibellina, era nemica e l’altra, la guelfa, era troppo furba. Ma Pietro di Praga aveva un motivo forte per compiere quel pellegrinaggio. Era un bravo prete, di ottimi costumi, onesto e timorato di Dio, il contrario della maggior parte dei chierici che in quel tempo s’incontravano per l’Europa e forse soprattutto in Italia. Pietro aveva però un problema, che era appunto il motivo di quel pellegrinaggio: dubitava che, nell’atto della consacrazione dell’ostia e del vino, quelli davvero si mutassero nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. Poteva darsi cheIMG_0467 fosse stato il confessore, al quale certo aveva dovuto manifestare i suoi dubbi, a consigliargli quel viaggio e insieme imporgli quella penitenza. Pietro arrivò a Bolsena verso sera, trovò ospitalità in una delle case per i pellegrini che erano attorno alla chiesa di Santa Cristina. Passò la notte in preghiera e al mattino chiese di poter celebrare messa all’altare sotto il quale è ancora oggi posta la lastra che porta incise le orme della santa martire.

Pietro doveva avere meditato sulle peripezie della fanciulla, i cui particolari, se non liIMG_0483 conosceva già, gli erano stati raccontati da altri pellegrini o da qualche confratello lì incontrato. E’ anche possibile che avesse fatto il paragone fra i dubbi dai quali continuava a essere agitato e quella sovrumana, disumana testimonianza di fede. Forse per questo aveva voluto dire messa proprio a quell’altare.

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, Amen”.

Non si sa se ci fosse qualche fedele ad assistere alla celebrazione. Tutte le raffigurazioni del miracolo ce li mettono. Così Francesco Trevisani nella pala dipinta per la cappella del miracolo a Bolsena. E così ha fatto Raffaello, che nelle stanze del Vaticano, per fare contenta la committenza, ci ha messo anche Giulio II con il suo seguito di cardinali nipoti, parenti e amici. Io troverei più bello che il povero Pietro fosse da solo.IMG_0477

Introibo ad altare Dei”.

Da ragazzino ho servito messa. Non l’ho fatto spesso. Non mi piaceva neppure tanto. Il massimo del mio cursus honorum nella breve carriera di chierichetto è stato servire messa al cardinale Traglia, una volta che era venuto al Sacro Cuore. Ero già grandicello. Dovevo avere sui tredici anni ed era il periodo che volevo farmi prete. Per questo, credo, non mi piaceva fare il chierichetto. Poi mi sono innamorato, da lontano, al mare, di una ragazzina che si chiamava Carla, ho cominciato a scrivere più di cento poesie e tutte le mie vocazioni religiose sono finite. Però, da ex allievo salesiano, ricordo tutte le volte che lì in via Marsala, al Sacro Cuore, o ancora prima al Don Bosco, mi capitava di vedere i preti che la messa se la dicevano e ascoltavano da soli. Ricordo anche l’effetto strano che mi faceva – ma non solo a me, a tutti gli studenti – vedere con la pianeta addosso e le mani giunte o le braccia alzate certi professori. I più incredibili – ma questa non è la parola giusta – erano il direttore, don Porfirio Jacoangeli, e don Igino Taù, professore di greco. Devono essere da molto tempo e meritatamente in paradiso: in quello di don Taù si parla greco, in quello del direttore certamente solo latino. Contro ogni logica, non prevedevamo che dicessero anche messa: trovarli oranti, sia pure con quella discrezione e riservatezza, anche quella sommarietà, essenzialità di gesti che li contraddistinguevano, era una rivelazione quasi sconvolgente.

Se c’era qualcuno che assisteva a quella messa, allora si udì la voce di quello che diceva: “Ad Deum qui laetificat juventutem meam”. Se Pietro era solo, come mi piacerebbe – ma non sono sicuro che a quel tempo il sacerdote potesse dire messa senza l’aiuto, di un “ministro” o “ministrante”, di un inserviente – se Pietro era solo, da solo si rispondeva, oppure forse taceva là dove non fosse necessario parlare. Al Kirie, in ogni modo, avrebbe dovuto da solo tre volte ripetere “Kirie eleison”, che significa “Signore, sii buono con me”, e poi tre volte “Christe eleison” e infine “Kirie eleison” ancora tre volte.

A un certo punto – saranno trascorsi dieci minuti da quando aveva cominciato – Pietro, prese la patena, che è il piattino nel quale si porta l’ostia all’altare, e solo muovendo le labbra, senza emettere suono, iniziò questa preghiera dell’offertorio: “Suscipe, Sancte Pater, omnipotens aeterne Deus, hanc immaculatam hostiam, quam ego, indignus famulus tuus, offero tibi, Deo meo vivo et vero, pro innumerabilibus peccatis, offensionibus et negligentiis meis…”. Poi, tenendo nella mano destra la patena, fece un segno di croce. Abbassò la patena e delicatamente fece scivolare l’ostia sul corporale, il panno di lino che poco prima aveva steso sopra l’altare. Quindi prese il calice, lo pulì con il purificatoio, vi versò il vino e poche gocce d’acqua. In questa parte della messa il prete non doveva far sentire la sua voce, come se quello che doveva succedere fosse un affare segreto fra lui e il Padreterno. Così, fu ancora solo nella mente che Pietro pronunciò: “Suscipe, Sancta Trinitas, hanc oblationem, quam tibi offerimus ob memoriam passionis, resurrectionis et ascensionis Jesu Christi, Domini nostri…”.

bolsena 038Arrivò il momento in cui Pietro dovette prendere l’ostia con quattro dita, l’indice e il pollice delle due mani, e pronunciò la formula che, come tutto il resto conosceva a memoria: “…accepit panem in sanctas ac venerabiles manus suas et elevatis oculis in coelum ad te patrem suum omnipotentem, tibi gratias agens, benedixit – e qui Pietro benedì l’ostia, facendole sopra il segno della croce – fregit, deditque discipulis suis dicens: accipite et manducate ex hoc omnes. Hoc est enim corpus meum”. Non so se Pietro sia arrivato fino a “corpus meum”, perché può darsi che il miracolo sia cominciato prima. L’ostia aveva preso a stillare sangue e s’era arrossata in modo da sembrare carne viva.

Pietro era sconvolto dal prodigio. Provò per prima cosa a fermare quel sangue: come volesse tamponare una ferita. Se non era solo, se c’era qualche fedele ad assistere alla messa, la cosa si spiega meglio: il buon prete voleva forse evitare ad altri il turbamento di cui era preda. Se invece era solo, allora non c’è altra spiegazione che un’estrema, tenace, disperata resistenza al miracolo. Ma, qualsiasi tentativo facesse, l’ostia continuava a sprizzare sangue che, oltretutto, andava a tracciare sul corporale forme che apparivano umane. Pietro rinunciò a continuare il sacrificio: ripose l’ostia e il calice nel tabernacolo e corse fuori dalla chiesa. Poi si mise in cammino per Orvieto per annunciare al papa il miracolo e per chiedergli l’assoluzione dal suo peccato, che tanto più gli doveva apparire grave, quanti più sforzi aveva fatto il Signore per illustrargli il dogma della transustanziazione.

IMG_0493Secondo me, non è un caso che quel prete fosse tedesco o boemo, che venisse dal Nord. Interrogarsi a lungo su certi misteri, avere la pretesa di spiegarli o la tentazione di negarli, mi sembra molto più tipico del temperamento nordico che del nostro. E’ un po’ come dire che se Martin Lutero fosse nato a Orvieto o a Viterbo non si sarebbe mai fatta la riforma protestante: che è un po’ esagerato, certo, e anche un po’ banale, ma in fondo non così lontano dalla verità. Ma non è neppure tanto questa la differenza, che mi pare vada cercata più indietro, indietro nel tempo e nella mente umana. Credere in Dio, da queste parti, sopra e sotto Roma, è già uno sforzo grande e forse il maggiore che si possa compiere. Una volta accettata l’idea che Dio esista e sia il solo, siamo naturalmente portati a ritenerlo libero di fare come meglio creda.

Dopo l’incontro con Urbano IV di quel Pietro non si sa più nulla. Può darsi che la sua conversione sia stata per sempre, ma può anche darsi che più avanti nel tempo, tornato in patria e divenuto vecchio, talora gli si riaffacciasse il dubbio e dovesse quasi forzare la memoria, cercare di rinnovare l’impressione e lo stupore per arrivare a dire: hic est enim calix sanguinis mei. Non lo sappiamo. Il miracolo fu compiuto per lui ma resta difficile dire quanto gli appartenesse.IMG_0424

Sotto Orvieto, dalla parte d’Occidente, la strada umbro-casentinese che ha appena costeggiato la rupe cittadina incontra un ponte che sormonta un fosso. Il fosso è quello di Rio Chiaro e il ponte è intitolato al sole, probabilmente perché è da quella parte che il sole degli orvietani ogni giorno tramonta. Un’edicola di tufo posta sul ciglio sinistro della strada, assieme alle sbiadite immagini d’una Madonna col bambino e d’un papa che incontra un vescovo, porta questa iscrizione:

QUI SULL’ANTICO PONTE

DI RIOCHIARO

L’ANNO MCCLXIII

IL PONTEFICE URBANO IV

SOLENNEMENTE INCONTRAVA

IL VESCOVO GIACOMO

RECANTE DA BOLSENA

LE RELIQUIE

DEL PRODIGIO EUCARISTICO

ONDE

LA CATTOLICA FESTIVITA’

DEL CORPUS DOMINI

E IL SORGERE

DEL DUOMO DI ORVIETO

Urbano IV, dopo aver ascoltato il racconto di Pietro da Praga, aveva incaricato il vescovo Giacomo Maltraga di andare subito a Bolsena per raccogliere le reliquie del miracolo e portarle a Orvieto. Il vescovo, che naturalmente doveva anche accertare che il miracolo non fosse solo l’invenzione, il sogno o l’allucinazione del prete tedesco, andò accompagnato da altri preti e teologi, che indagassero sulla veridicità dei fatti e ne acquisissero i minimi particolari: si disse poi che di quel corteo facessero anche parte Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Compiuta la missione a Bolsena, Giacomo Maltraga col suo seguito riprese la strada di Orvieto. Quando era ormai prossimo alla città poté vedere una lunghissima processione che scendeva dalla rupe: la guidava il papa con i cardinali e appresso tutto il clero e le confraternite e infine il popolo. I giovani orvietani agitavano rami d’ulivo, come fosse quello l’ingresso di Cristo a Gerusalemme.

Le reliquie furono portate in cattedrale, che era allora la chiesa di Santa Maria in Episcopatu. L’anno dopo, l’11 agosto 1264, Urbano IV istituì con la bolla Transiturus de hoc mundo, la festa del Corpus Domini, da celebrarsi ogni anno il giovedi successivo all’ottava di Pentecoste: la stesura del testo della messa e dell’ufficio l’aveva affidata a San Tommaso d’Aquino. Fu oltre un quarto di secolo dopo, il 13 novembre del 1290, che venne posta la prima pietra della nuova cattedrale destinata a prendere anche materialmente il posto della vecchia e d’un’altra chiesa che era lì vicino ed era dedicata a San Costanzo.IMG_1988

IMG_2002IMG_1993Il duomo, ecco, bisogna pur parlarne. Mi sono reso conto che ho fotografato più spesso i fianchi che la faccia, quasi fosse una donna affascinante per le linee del corpo almeno quanto per i lineamenti del viso. Linee, appunto, fasce bianche e nere, come è risaputo, poste una sopra l’altra, quasi all’infinito. Forse il vecchio fotografo in disuso, che oggi porta in tasca la sua piccola macchina digitale solo come promemoria, si lascia sorprendere da estri improvvisi e improvvisati: fotografare a colori il bianco e nero è almeno altrettanto bello e utile che, come per tanto tempo si è fatto e anche detto, fotografare in bianco e nero i colori. E’ straordinario e ipnotico il movimento che eseguono quelle linee bianche e nere attorno alle convessità delle cappelle per poi quasi attorcigliarsi ai pilastrini e infine piegarsi bruscamente nella strombatura d’una finestra. Il bianco non è IMG_0416completamente bianco e il nero non è davvero nero: è anche per questo che il colore aiuta. Il loro contrasto è tutta la luce possibile: ed è da quella che le cappelle, i pilastrini, le finestre prendono vita e consistenza. Un miracolo vero, non c’è dubbio, che trova compimento nella facciata, pur così diversa. Come le fasce bianche e nere vivono di luce propria, così le mille e mille variazioni dei portali, dei bassorilievi, dei mosaici, delle nicchie, del loggiato, del rosone, delle guglie e delle cuspidi non vivrebbero senza la luce del sole.IMG_2656

Fra i cento scatti sempre più amatoriali del vecchio amante della fotografia ce ne sono un paio che il predetto trova insieme d’indubitabile bellezza loro e di disarmante banalità propria: li ho fatti da una finestra del Museo Faina, in faccia, se così posso dire, alla facciata. E’ stato il sole, sole al tramonto, come quello del ponte, a farmeli vedere: ero obbligato a prenderli. Il primo è del rosone di Andrea Orcagna, preso un po’IMG_2655 di sghimbescio: la mia finestra non era proprio lì davanti. L’altro è del mosaico che sovrasta il portale grande e rappresenta l’assunzione di Maria. Fanno luce. Adesso che sono qui a raccontarlo, direi quasi che non solo riflettono i raggi del sole che hanno di fronte, ma glieli rimandano indietro e a loro volta lo illuminano.

La chiesa cattedrale di Orvieto non è intitolata al Salvatore o al Corpus Domini, come magari potrebbe aspettarsi chi abbia fin qui seguito la storia di Pietro da Praga e del miracolo che gli è capitato. E’ intitolata a Santa Maria Assunta: una precisazione, questa, necessaria e forse sufficiente a spiegare come la storia del duomo sia sì legata, anche largamente, al miracolo di Bolsena, ma non ne sia del tutto dipendente. Si può probabilmente dire che il miracolo eucaristico e la decisione di costruire la nuova, più grande cattedrale, siano state per Orvieto in un rapporto, piuttosto che di causa ed effetto, di felice coincidenza sul finire di quel tredicesimo secolo segnato dalla rinascita, anche a volte agitata, della fede religiosa e dalla crescita, in alcuni casi mastodontica e forse sproporzionata, dell’orgoglio cittadino.

L’interno è degno dell’insieme, ma per me è meno commovente. Dipenderà forse dal fatto che la maggior parte dei visitatori – e io con loro – è condizionata da quel certo eccesso d’informazione che circonda sempre le opere somme. Questi eccessi non sono mai solo di quantità, sono anche di qualità e lo sono più spesso. L’eccesso non è tanto, dunque, di sapere tutto – che è cosa che non capita a nessuno – quanto di sapere bene poche cose, ovvero credere di conoscerle profondamente, di amarle e ricordarsele anche senza vederle. Il duomo di Orvieto si presta facilmente a questo gioco, questo inganno, questa trappola. Non è il solo: alzi la mano chi sia capace di entrare nella basilica di San Pietro senza voltare quasi subito a destra per rivedere – o anche vedere per la prima volta – la Pietà di Michelangelo. La memoria personale si mischia fatalmente con la collettiva: la sensibilità particolare dell’individuo, la sua cultura, le sue stesse passioni incidono piuttosto limitatamente sul comportamento di fronte alle opere d’arte. Così, perché ci è stato detto o perché ci siamo già stati, perché lo ricordiamo dalle lezioni del liceo, perché abbiamo colto un’immagine molto tempo prima e poi è tornata, con la regolarità che hanno solo certe immagini a tornare, una volta penetrati all’interno della chiesa, ammirati certo delle sue misure, delle sue variate luci e dei colori che si staccano, qua e là, dal bianco e nero che si ripete anche dentro come per rassicurarci, davanti all’immensa navata ancora indecisa se accoglierci o respingerci, noi non abbiamo da fare altro che percorrerla tutta, fino al transetto, e lì, a destra, precipitarci nella grande cappella detta di San Brizio, o dell’Assunta, o anche cappella nuova, perché è quella che ultima si è aggiunta al duomo. Che altro dobbiamo fare, infatti, in questa chiesa se non tornare a vedere – o, tanto più, guardare la prima volta – il magistrale finimondo inventato da Luca Signorelli allo scadere del millennio e mezzo dalla nascita di Cristo?

Lo guardo e lo riguardo: l’Apocalisse, l’Anticristo, la resurrezione dei morti, i dannati, i beati, in fondo la divisione delle anime, sotto il Cristo giudice già dipinto dal Beato Angelico con qualche svogliatezza. Ci sono particolari sui quali gli occhi invariabilmentebolsena 031 ritornano: la dannata portata in volo da un diavolo, che la tiene in groppa. La donna non è più giovane – si vede da certe pieghe che le fa la carne sulla schiena – ma è ancora bella. Fra concupiscenza e dannazione il confine è labile: questo, forse, vuole essere l’insegnamento. Le braccia dei due sono unite. La destra del demonio tiene il polso della donna, come rappresentazione del possesso di quell’anima, allegoria della dannazione. Le sinistre si intrecciano, quasi fosse amore. Lo sguardo molto compiaciuto del diavolo non sembra significare compiacimento per il lavoro ben fatto, l’adempimento d’una diabolica missione, rassomiglia piuttosto a desiderio, lussuria in potenza e anche un po’ in atto. In fin dei conti sono carni che si toccano: che non se ne sia accorto il capitolo della cattedrale, può darsi, che non se ne accorgesse Signorelli, questo non è credibile.

Se abbasso lo sguardo, scendo da quel volo disperato alla massa, insieme multiforme e informe, dei dannati e dei diavoli. Sono almeno una sessantina di soggetti, aggrovigliati in maniera tale ch’è davvero difficile contarli. Proprio sotto il volo c’è un demonio grigio che stringe con tutte le sue forze una donna più giovane di quella che dicevo, e più bella, più prospera nell’esibizione dei suoi seni: ha gli occhi chiusi con tanta fermezza che è come se morisse un’altra volta. Dietro di loro un altro diavolo tiene le spalle d’un’altra anima dannata e le morde l’orecchia: a prima vista sembrerebbe un’anima di donna, ma bolsena 030non lo si può dire con certezza. Non è un semplice supplizio generale, una carneficina spirituale: è anche un’orgia. Lì accanto, sulla stessa parete, ci sono i morti che risorgono al suono delle trombe del giudizio. E’ straordinaria la distanza fra i due momenti, i due mondi dipinti uno accanto all’altro: questo è un momento prima, un mondo prima dell’altro, un mondo che forse dura un attimo, il tempo che passa fra l’annuncio del giudizio e la sentenza. Non tutte le anime saranno salve. L’unico, forse, che se ne rende conto, è quest’uomo che, quasi nel mezzo della scena, ha ancora da tirare su dalla terra la gamba destra e per questo fa forza sulla sinistra piegata: guarda in alto e appare incerto del futuro. Fra il suo braccio destro e il fianco appare il teschio d’un’altra anima, d’un altro corpo che sta risorgendo: e anche quello sembra un po’ perplesso. Gli altri no – almeno così mi appaiono – scheletri e corpi già fatti, o in formazione, sono tutti felici della vita ritrovata: non importa quanto duri l’eternità e quale possa esserne l’impiego, l’importante è vivere. Qualcuno, sì, sembra ancora avvolto nel torpore, ma chi dà il segno a tutti è quest’altro, a destra, in primo piano: mani sui fianchi, gambe divaricate, capelli sciolti sulle spalle e la schiena, è un atleta pronto a qualsiasi corsa.

bolsena 036Sulla parete opposta trovo altre due scene a contrasto: le storie dell’Anticristo e i beati in paradiso. Sono cronologicamente la prima e l’ultima del ciclo: come dire che l’Anticristo è una premessa necessaria della finale salvezza. Mi rendo improvvisamente conto che il bene e il male giocano ai quattro cantoni nella cappella di San Brizio: le linee logiche, teologiche, ma anche sentimentali, che uniscono l’Anticristo con i dannati e i morti risorti con i beati,bolsena 033 formano una X. Anche d’un’altra cosa mi accorgo: avendo l’Angelico già dipinto il Cristo giudice, un po’ lontano e quasi assente nella vela sopra la finestra, al povero Signorelli non sarebbero rimaste altre fattezze di Cristo da ritrarre che quelle dell’Anticristo, se non si fosse presentata, nella stessa cappella, ma fuori del ciclo, l’occasione di rifare la nicchia sulla parete destra, la cosiddetta cappella dei corpi santi, con l’affresco della pietà. Però l’Anticristo fa davvero paura, la fa ancora: come d’altra parte è giusto, considerato che, salvo notizie che non ho avuto, dovrebbe ancora arrivare. Se è come Signorelli ce lo rappresenta – pupazzo nelle mani d’un diavolo ventriloquo – allora si può temere di tutto.

Dalla parte opposta del transetto c’è la cappella del corporale, più antica e più piccola di quella di San Brizio.

HANC CAPELLAM PINXIT UGULINUS PICTOR DE URBEVETERI ANNO DOMINI MCCCLIV DIE JOVIS VIII MENSIS IUNII

Così sta scritto nella parete di fondo, quella dominata dal grande affresco della crocefissione e dal tabernacolo che contiene il corporale di Bolsena: Ugolino, pittore di Orvieto, ha dipinto questa cappella nell’anno del Signore 1364, il giovedi 8 del mese di giugno. Il che non vuol dire, naturalmente, che l’abbia dipinta tutta in un giorno. Era passato dunque un secolo dal famoso miracolo. E un quarto di secolo era trascorso da quando, nel 1338, un altro Ugolino, l’orafo senese Ugolino di Vieri, aveva consegnato finito al capitolo della cattedrale il reliquiario in oro, argento e smalto, che adesso è esposto in un lato della cappella. Un Ugolino ha copiato l’altro. Ugolino di Prete Ilario – questo il nome del pittore orvietano che ha poi affrescato anche il coro del duomo – ha ripreso i moduli, lo schema, molti soggetti e a volte lo stesso impianto delle scene che l’orafo di Siena aveva sviluppato nelle ventiquattro formelle del reliquiario. Così, per esempio, ritrovo raccontato da due parti l’incontro al ponte sole, sul Rio Chiaro, fra il papa Urbano IV e il vescovo Giacomo Maltraga. Ugolino di Vieri gli dedica due formelle – una finisce con Urbano, l’altra comincia con Giacomo – ma gran parte degli smalti si sono consumati. Ugolino di Prete Ilario s’inventa una striscia, alta quanto gli altri moduli, ma larga abbastanza da farci entrare Orvieto e tutto il corteo che dalla città continua a scendere. La pittura è più libera dell’oreficeria.

Bisognerà, tuttavia, considerare la forma del reliquiario nel suo insieme, per dargli l’onore che merita. Le opere d’arte, quale che sia il genere, si riconoscono per i dettagli e per l’insieme, per il loro racconto e per la loro forma. Il reliquiario imita o piuttosto suggerisce la facciata di una chiesa tricuspidata. In altri termini il reliquiario e il duomo sono gemelli. Cosicché le immagini si riflettono una nell’altra e i racconti si ripetono, all’infinito: nei secoli dei secoli, sarebbe il caso di dire. Viene quasi da pensare che la fede, se è a questo che servono le cattedrali, sia più ripetizione che rivelazione.